sabato 28 novembre 2009

L’esperimento Balmer-Kress

Questo blog è attento a tutta la letteratura che si occupa di scienza, anche a quella che simpaticamente la prende in giro. Il maestro di questo genere è stato Georges Perec, con la sua Cantatrix Sopranica L., falso studio “sugli effetti del buttamento dei pomodori sulle soprano”, che ho già riproposto. Non manca un’incursione del sottoscritto nel genere, con Maggioranza di governo e catastrofi naturali: uno studio scientifico, articolo pubblicato in giugno che ha riscosso un certo successo tra coloro che sono convinti che l’attuale presidente del consiglio porti sfortuna e hanno trovato come corredare di basi inconfutabili la loro opinione.

Ieri ho ottenuto da Paolo Albani il permesso di presentare uno dei racconti surreali parascientifici che periodicamente pubblica su Il Caffè illustrato, il bellissimo bimestrale di parole e immagini diretto da Walter Pedullà . Chi frequenta questo blog già conosce Paolo Albani, per gli accenni diretti o indiretti che ogni tanto faccio alla sua giocosa e intelligente opera artistica, poetica e letteraria. Per chi se la fosse persa, consiglio, ad esempio, di andare a leggere la Recensione in forma di lettera che ho pubblicato tra le Recensioni immaginarie e, per chi fosse interessato, segnalo che Domenica 6 dicembre, a Pistoia, a partire dalle ore 17.30, presso Lo Spazio di via dell'Ospizio, libreria - galleria d'arte - sala da tè, verrà inaugurata una sua mostra personale, dal titolo Ritirarsi in silenzio, ma anche no. Nella mostra saranno presentate una serie di opere rappresentative del lavoro dell'artista chiaramente riconducibile al filone della poesia visiva.

Il racconto che riporto si intitola L’esperimento Balmer-Kress e prende spunto dal celebre “effetto farfalla” descritto dal meteorologo americano Edward Lorenz nei primi anni ’60. L’immagine di una farfalla che batte le ali e provoca un tornado a migliaia di chilometri di distanza è stata usata in molti contesti, sia scientifici (come nello studio dei sistemi complessi), sia matematici (negli attrattori di Lorenz), sia letterari e cinematografici. L’opera di Albani "descrive" uno dei tentativi di dimostrare sperimentalmente la fondatezza di tale immagine.

"Il fisico statunitense James Balmer-Kress dell’Università del Maryland, studioso dei sistemi complessi e caotici, ha pubblicato sull’American Journal of Turbulence un saggio intitolato On the Measurement of Butterfly Effect (3, 2000, pp. 1069-1105) in cui espone i risultati di un esperimento che, per l’apertura di nuovi scenari sul piano delle previsioni metereologiche, ha richiamato l’attenzione della comunità scientifica.

La ricerca di Balmer-Kress è finalizzata alla verifica del ben noto “effetto farfalla”, cioè di quel fenomeno, così denominato da Edward Lorenz, metereologo del MIT (Massachusetts Institute of Technology), secondo cui «il battito d’ali di una farfalla nell’Iowa potrebbe, in linea di principio, innescare una valanga di effetti che avrebbe come risultato finale un monsone in Indonesia» (1).

L’effetto farfalla ha un nome tecnico: «dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali». Ciò significa che una catena di eventi può avere un punto di crisi in cui piccoli mutamenti sono suscettibili di ingrandirsi a dismisura.

Per alcuni mesi (quattro per l’esattezza) Balmer-Kress, aiutato da due assistenti, il biologo David Pagels e la chimica Isabelle Holton, si preoccupa di collezionare un’ampia quantità di farfalle diurne, cioè attive nelle ore di luce, di sesso femminile, il cui battito d’ali è notoriamente più uniforme di quello delle farfalle diurne di sesso maschile. Durante vari soggiorni in zone particolarmente ricche di questo tipo di lepidotteri, come l’Amazzonia peruviana e il nord della Cambogia, Balmer-Kress raccoglie 4.572 farfalle diurne di sesso femminile, numero ritenuto minimo ai fini della significatività dell’esperimento.

Tutti gli esemplari vengono collocati all’interno di una grande voliera costruita nella città di Des Moines, in un campo vicino all’Istituto di Fisica sperimentale dell’Università dell’Iowa, finanziatrice del progetto. A questo punto Balmer-Kress passa alla fase esecutiva del suo esperimento.

Considerando mediamente una lunghezza di apertura alare di 11,4 cm per una larghezza di 4 cm e un peso di 3,4 milligrammi ad esemplare e supponendo che i battiti d’ali di una farfalla diurna standard siano all’incirca 19 al secondo, Balmer-Kress congettura che la massa d’aria libera (cioè quella che comunemente si respira) spostabile da ogni soggetto in questione nell’unità di tempo di un secondo sia uguale a 9 cm3.

Da questi dati Balmer-Kress deduce che, facendo agitare tutti gli esemplari di farfalle diurne all’unisono, tramite uno strumento idoneo di comunicazione (come un colpo di cannone a salve), è possibile originare uno spostamento d’aria complessivo di 41.148 cm3. Da quest’ultima stima vanno sottratti i battiti d’ali non realizzati allo sparo, a causa della presenza nel gruppo esaminato di una percentuale x, compresa in genere tra lo 0,6% e lo 0,7%, di farfalle non udenti (si pensi alla Thecla intricarius o alla Papilio dubius) o di farfalle malate oppure in età avanzata, e quindi non ricettive, scientificamente denominate “pigre”. Inoltre per evitare movimenti d’aria non controllabili Balmer-Kress predispone che il rumore del colpo di cannone sia registrato su nastro e amplificato ad un volume idoneo alle capacità uditive delle farfalle.

Le procedure indicate da Balmer-Kress per la corretta esecuzione dell’esperimento sono: 1. il colpo di cannone virtuale va diffuso in piena notte, quando si suppone che le farfalle diurne siano in fase di quiete, o al massimo di dormiveglia, in una fascia oraria sempre eguale; 2. il colpo dev’essere eseguito in un momento di totale assenza di vento e senza alcun preavviso; 3. prima dello sparo bisogna evitare nel modo più assoluto l’impiego di fonti di luce artificiale che potrebbe disturbare il sonno delle farfalle, così da comprometterne i riflessi.

Una volta effettuato il colpo di cannone dal campo-base di Des Moines non resta a Balmer-Kress che osservare l’eventuale formazione di un monsone in un punto prestabilito dell’Indonesia (per una molteplicità di fattori climatici e turistici viene scelta la località di Bedulu nell’isola di Bali). Naturalmente il nesso battiti d’ali di farfalla-creazione del monsone, precisa Balmer-Kress, deve tenere conto delle condizioni di temperatura e pressione esistenti al momento dell’esperimento nella fascia intertropicale, della velocità media di spostamento degli alisei che è di 5 m/s (minuti al secondo) e di altri fattori stocastici di disturbo (ad es. flussi di uccelli migratori in ritardo o fuori rotta, mutamenti improvvisi nell’intensità della navigazione aerea, ecc.), oltre che del battito d’ali di altri volatili presenti nella zona geografica interessata (su quest’ultimo elemento l’analisi di Balmer-Kress fornisce simulazioni e calcoli correttivi basati su serie statistiche sufficientemente attendibili).

La conclusione cui giunge Balmer-Kress è che il tempo mediamente necessario, in condizioni normali, per la formazione di un monsone registrabile a Bedulu (Indonesia) dopo il rumore di un colpo di cannone riprodotto ai bordi della voliera nel campo di Des Moines (Iowa) è di 3,2 giorni.

Dal 4 febbraio al 2 settembre del 1999 Balmer-Kress effettua 27 esperimenti, quattro al mese, ad intervalli di circa 8 giorni l’uno dall’altro, tutti regolarmente attuati nella stessa fascia oraria, cioè dalle 2 alle 3, con lo stesso apparecchio stereo e lo stesso altoparlante (2). In 21 di essi, a seguito del brusco risveglio delle farfalle diurne a Des Moines, registra, dopo un lasso di tempo atteso oscillante fra i 3 e i 4 giorni, la nascita di un monsone (invernale ed estivo a seconda della stagione) nell’osservatorio di Bedulu. I riscontri negativi, 6 nel complesso e tutti significativamente verificatisi nell’ultima fase dell’esperimento, sono imputabili secondo Balmer-Kress al peso decrescente del “fattore sorpresa” sul comportamento delle farfalle".


Nota

1. Un precedente tentativo di misurazione dell’effetto farfalla è descritto nell’articolo di D. Inaudi, X. Colonna de Lega, A. Di Tullio, C. Forno, P. Jacquot, M. Lehmann, Max Monti e S. Vurpillot, Chaos: demonstrated the butterfly effect, pubblicato sul numero 1/6, novembre-dicembre 1995 degli Annals of Improbable Research.

2. Riportiamo qui di seguito una rappresentazione grafica dei risultati dell'"esperimento di Balmer-Kress, tratta da pag. 1103 del citato saggio del fisico statunitense.

il Caffè illustrato, 1, giugno-luglio 2001, pp. 82-83.

giovedì 26 novembre 2009

De Rerum Natura: atomismo e ragione



Di Tito Lucrezio Caro (98 o 96 – 55 o 53 a.C.) ci è ignoto quasi tutto: negli scritti dei contemporanei non c’è traccia, tranne una lettera di Cicerone, nella quale l’arpinate accenna all'edizione postuma del De Rerum Natura, che egli starebbe curando. Un'altra fonte che cita Lucrezio è di quattro secoli posteriore: San Girolamo nel suo Chronicon, sostiene che egli sarebbe morto suicida a 42 anni a causa della pazzia indotta da un filtro amoroso (poculum). Per accreditare questi tesi, San Girolamo si riferisce all’opera di Svetonio De Viris Illustribus, considerata degna di credito. In realtà Svetonio, conosciuto come il pettegolo della storia, era amante degli aneddoti, e non pare fonte sempre attendibile. Inoltre la notizia non concorda con quanto affermato da Elio Donato (IV d.C.), maestro di San Gerolamo, secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato nel 70 a.C.) indossò a 15 anni la toga virile, cioè nel 55 a.C., all'età di quarantaquattro anni. Le uniche notizie biografiche tramandate direttamente dall'antichità si limitano a questi pochi e vaghi cenni. Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia alcuni credono essere Pompei o Ercolano, sia per la presenza di un cenacolo epicureo in quest'ultima città, retto da Filodemo, sia perché la gens Lucretia, di origine etrusca, era largamente rappresentata a Pompei, come è attestato da numerose iscrizioni marmoree. I Lucretii di Pompei erano proprietari agricoli di modesta agiatezza, dediti agli studi, appassionati di belle arti, devoti specialmente a quelle due divinità, Venere e Marte, che lo stesso Poeta mostra di avere care.

Poiché la biografia non ci dice molto, le idee del poeta devono essere desunte dalla sua opera, il De Rerum Natura, allo stesso tempo illustrazione della dottrina di Epicuro e vero capolavoro poetico di natura cosmogonica.

In Lucrezio lo scopo didascalico è deliberato. La sua grandezza consiste proprio nell’aver saputo comporre una mirabile sintesi di scienza ed arte. Tale fu il giudizio di Cicerone, epicureo anch’egli, affascinato dall’idea di concludere il poema lasciato incompiuto. Lo stesso Virgilio era un grande estimatore dell’opera di Lucrezio, definendo, nel II Libro delle Georgiche, "felice colui che poté indagare la ragione delle cose" e rimpiangendo di non avere potuto egli stesso scrivere un poema cosmogonico. Un altro grande poeta, Ovidio, diceva di Lucrezio che i suoi versi sarebbero finiti solo con la fine dell’universo. Eppure, a dispetto degli elogi dei contemporanei, l’opera di Lucrezio non ebbe molta diffusione: i manoscritti sin qui pervenuti risalgono ad un archetipo del IV o V secolo, ma i più notevoli furono scoperti solo nel ‘400 da Poggio Bracciolini.

Nei primi due dei cinque libri di cui si compone l’opera, Lucrezio espone la teoria atomica di Epicuro, a sua volta derivata da quella di Democrito. Di questi due libri si occupa il mio articolo.

Il poema si apre con l’invocazione a Venere e Marte, cui segue il primo inno ad Epicuro, al cui pensiero filosofico l’opera si ispira. Lucrezio mette in evidenza l’aspetto della dottrina epicurea che egli ritiene più importante, cioè quello di avere distrutto la superstizione e il terrore degli dei, svelando la vera natura dei fenomeni naturali.

La vita dell’uomo, dinanzi agli occhi di tutti, vergognosamente stava
abbattuta in terra, schiacciata sotto Religione opprimente,
che il capo delle regioni del cielo mostrava,
con sguardo terrificante incombendo sopra i mortali:
e allora per primo un uomo di Grecia gli occhi mortali contro
di lei osò alzare, primo ergersi contro;
lui, né reputazione degli dèi, né fulmini, né, con minaccioso
borbottio, il Cielo, lo trattennero, ma ancora di piú l’aggressiva
forza dell’animo eccitarono, sì ch’egli bramasse svellere,
per primo, le sbarre chiuse delle porte di Natura.
Dunque la forza vigorosa dell’animo ebbe vittoria, e lontano
avanzò, al di là delle mura del mondo che gettano fiamme,
e l’Infinito tutto percorse con la ragione e con l’animo:
da li a noi riferisce, vittorioso, ciò che possa aver nascita,
ciò che non possa, per quale legge infine abbia, ogni cosa,
campo d’azione determinato, e confini infissi nel profondo:
perché Religione, gettata sotto i piedi, a sua volta
è schiacciata, la vittoria noi rende uguali al Cielo.

Lucrezio sostiene che la dottrina di Epicuro non è empia anche se annulla il ruolo degli dèi negli eventi naturali. Al contrario, è la falsa religione a essere dannosa, come dimostra la vicenda di Ifigenia, la vergine sacrificata alle divinità per ottenere che la flotta greca trattenuta dalla bonaccia potesse salpare dal porto di Aulide. Per Epicuro gli dèi possono esistere, ma non devono curarsi delle cose mortali. Riprendendo questo concetto, Lucrezio afferma che il premio o il castigo non vengono dagli dèi ma dalla serenità della propria coscienza o dal rimorso, ed è la saggezza l’unica sorgente di felicità nella vita. Sbagliano dunque gli uomini che vedono in molte manifestazioni naturali l’espressione di una volontà divina che non esiste. Nulla può essere prodotto dal nulla:

Il cui principio prenderà per noi l'avvio da questo:
che nessuna cosa mai si genera dal nulla per volere divino.
Certo per ciò la paura domina tutti i mortali:
perché vedono prodursi in terra e in cielo molti fenomeni
di cui in nessun modo possono scorgere le cause,
e credono che si producano per volere divino.
Pertanto, quando avremo veduto che nulla si può creare
dal nulla, allora di qui penetreremo più sicuramente
ciò che cerchiamo, e donde si possa creare ogni cosa
e in qual modo tutte le cose avvengano senza interventi di dèi.

Le cose non possono svanire nel nulla, come non possono nascere dal nulla. Il poeta crede quindi nella conservazione perenne della materia nell’universo, dicendo che le cose sono costituite da aggregazioni che possono separarsi nei costituenti elementari che poi si aggregano di nuovo per dar luogo a forme diverse della natura. Cambia la manifestazione, in un perenne rinnovarsi del mondo, ma la materia è eterna.

Lucrezio mette in evidenza come alcuni fenomeni si manifestano senza che il nostro senso visivo percepisca la presenza di materia, dando l’impressione errata che si siano prodotti dal nulla. Egli espone alcuni esempi come il vento che, pur essendo invisibile, produce effetti tangibili a volte anche disastrosi, oppure gli odori, o il caldo, o il freddo, o le voci che producono sensazioni rivelabili dai nostri sensi e che quindi devono essere costituiti da elementi materiali.

Inoltre noi sentiamo i vari odori delle cose e tuttavia
non li discerniamo mai mentre vengono alle narici,
né scorgiamo le emanazioni di calore, né possiamo cogliere
con gli occhi il freddo, né ci avviene di vedere i suoni;
e tuttavia tutte queste cose è necessario che constino
di natura corporea, perché possono colpire i sensi.
Nessuna cosa infatti può toccare ed essere toccata, se non è un corpo.

Dopo avere parlato della materia, il poeta illustra il concetto di vuoto, che permette il movimento delle cose e spiega le diverse densità della materia.

Che poi tutto l'insieme delle cose possa porsi da sé stesso
un limite, lo vieta la natura; la quale costringe la materia
a essere limitata dal vuoto, e quanto è vuoto a essere limitato
dalla materia, sì che con la loro alternanza rende infinito
il tutto, o altrimenti l'uno o l'altro dei due, se non lo delimita
l'altro, con la semplice sua natura si stende tuttavia illimitato.

Secondo il poeta latino, nell’universo esistono solo materia e vuoto: la materia è tutto ciò che è rivelabile per mezzo dei sensi, mentre all’esistenza del vuoto si giunge con il ragionamento. Come conseguenza di questo principio è quindi assurdo ricorrere all’esistenza di nature diverse da queste, come acqua, fuoco aria e terra. Lucrezio introduce l’idea delle partes minimae, come esigenza di porre un termine alla suddivisione dei corpi e quindi per impedirne la distruzione completa. Questi enti primordiali sono gli atomi (“non divisibili”). . La materia è costituita da atomi, e le differenti aggregazioni di questi danno origine ai differenti tipi di sostanze. Per Lucrezio gli atomi sono indivisibili ed eterni, caratteristiche che egli ritiene strettamente connesse tra loro.

Esservi inoltre deve nei corpi minuti, che l’occhio
già più non vede, un punto estremo, che certo di parti
non risulta, natura ha minima, e in sé distaccato
né mai visse né mai esister potrà nel futuro,
ché d’altro corpo è solo la prima inscindibile parte,
nata a segnar l’inizio dei punti, che, simili ad esso,
l’uno l’altro seguendo, in serie ordinata, col loro
fitto adunarsi crein l’intera natura del corpo;
mai non potendo questi esister da sé, son costretti
ivi a stiparsi, donde divellerli più non è dato.
Atomi esistono dunque di solido e semplice corpo,
che minutissime parti contengono in sé combacianti
strettamente serrate, non già nella stessa maniera
che s’aggregano poi nei corpi quegli atomi stessi,
ma piuttosto dotati d’essenza indivisa ed eterna,
onde non soffre natura che parte più lieve si stacchi,
per conservare interi al nascere degli esseri i germi.


È interessante notare che Lucrezio accenna alla possibilità che gli atomi siano a loro volta composti di parti più piccole, ma afferma anche che queste parti sono inscindibili e formano nel loro insieme l’entità atomo, in modo differente da come gli atomi formano le cose, che possono mutare.

Lucrezio rigetta anche le teorie, propugnate da Eraclito, Talete e Anassimene, basate sui principi unici del fuoco, dell’acqua, dell’aria e della terra come sostanze primordiali di tutte delle cose. Egli critica anche Empedocle, che ipotizza l’esistenza di quattro elementi primordiali (acqua, fuoco, aria, terra). Lucrezio condanna in particolare la possibilità che questi elementi si trasformino l’uno nell’altro. Inoltre confuta anche la teoria atomistica di Anassagora, che ha una concezione diversa da Epicuro sugli atomi, cioè che i corpi, anche se divisi all’infinito, restano identici a se stessi. La base della confutazione è essenzialmente costituita dalla sua concezione dell’atomo come particella indistruttibile.

Prima di passare dalla teoria atomica alla concezione dell’universo, il poeta rievoca un insegnamento della dottrina epicurea, per cui la poesia ha il suo valore solo in quanto rende graditi ed accessibili alla mente gli importanti misteri della scienza. È un concetto che condivido pienamente. Lucrezio lo presenta attraverso l’immagine di un fanciullo ammalato al quale si fa bere una medicina amara inumidendo con miele il bordo del bicchiere.

…ma, come i medici, quando cercano di dare ai fanciulli
il ripugnante assenzio, prima gli orli, tutt'attorno al bicchiere,
cospargono col dolce e biondo liquore del miele,
perché nell'imprevidenza della loro età i fanciulli siano ingannati,
non oltre le labbra, e intanto bevano interamente l'amara
bevanda dell'assenzio e dall'inganno non ricevano danno,
ma al contrario in tal modo risanati riacquistino vigore;…


L’idea di Lucrezio sull’universo era basata su due punti fondamentali: l’infinità dello spazio e l’infinità della materia. La sua convinzione deriva dalla considerazione che se lo spazio non fosse infinito, dopo tanti secoli, la vita sarebbe scomparsa, e che l’infinità della materia deriva dalla necessità che il numero degli atomi primordiali, che sono eterni, non sia limitato.

Ma, poiché ho insegnato che gli atomi sono solidissimi
e in perpetuo volteggiano, invitti attraverso ogni tempo,
ora investighiamo se la loro somma abbia o non abbia
alcun limite; e parimenti, il vuoto di cui abbiamo scoperto
l'esistenza, o luogo o spazio, in cui tutte le cose si svolgono,
scrutiamo se sia tutto assolutamente finito
oppure si apra immenso e smisuratamente profondo.
Tutto quanto esiste, dunque, non è limitato in alcuna
direzione; altrimenti dovrebbe avere un'estremità.
È evidente, d'altra parte, che niente può avere un'estremità,
se al di là non esiste qualche cosa che lo delimiti, sì che appaia
un punto oltre il quale questa natura di senso non possa più seguirlo.

Per rendere chiara l’idea di infinità, Lucrezio, riferendosi al noto paradosso di Zenone, fa l’esempio della freccia che, anche se lanciata dagli estremi confini dell’universo, deve sempre andare più in là, non potendosi concepire che venga fermata o rimbalzi indietro per la presenza di nuovi corpi. Zenone aveva sottolineato l’infinitamente piccolo, mentre Lucrezio lo fa con l’infinitamente grande. Egli esprime anche il concetto che non vi sono punti preferenziali nell’universo che, per la sua infinità, non può avere un centro (1).

Lucrezio, seguendo Epicuro, concepisce il movimento degli atomi come un stato naturale necessario a spiegare la formazione dei corpi. Lucrezio attribuisce il moto al peso degli atomi, ma deve postulare l’esistenza del clinamen per spiegare gli urti degli atomi e quindi la loro aggregazione. Gli atomi cadono a causa del loro peso, ma, in un certo istante non determinato, né determinabile, l’atomo si sposta lievemente dalla verticale percorrendo una leggera curva detta clinamen. L’introduzione del clinamen, logicamente un po’ zoppicante, deriva dal fatto che gli atomi, cadendo perpendicolarmente sotto l’azione del proprio peso non si sarebbero mai incontrati (2).

Questo principio di “libera scelta” degli atomi ha un significato fisico ma anche filosofico: il libero arbitrio è facoltà di ogni ente naturale.

A tale proposito desideriamo che tu conosca anche questo:
che i corpi primi, quando in linea retta per il vuoto son tratti
in basso dal proprio peso, in un momento affatto indeterminato
e in un luogo indeterminato, deviano un po' dal loro cammino:
giusto quel tanto che puoi chiamare modifica del movimento.
Ma, se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso,
come gocce di pioggia, per il vuoto profondo,
né sarebbe nata collisione, né urto si sarebbe prodotto
tra i primi principi: così la natura non avrebbe creato mai nulla.

La visione che Lucrezio ha della natura delle cose è riconducibile al concetto per cui ogni fenomeno naturale trova la sua spiegazione specifica. E le uniche leggi che regolano il moto degli atomi sono di tipo meccanico. Ai cantori del sentimento come unica matrice della poesia l’opera dello scrittore latino ricorda come un razionalista possa scrivere il più bel poema di argomento naturalistico della letteratura mondiale.


Note

(1) L’associazione mentale mi porta a ricordare Giordano Bruno in De la causa, principio et uno (1584), quando afferma che tutta la vita è materia infinita.

“È dunque l'universo uno, infinito, immobile; una è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo et ottimo; il quale non deve poter essere compreso; e perciò infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato e per conseguenza immobile; questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto; non si genera perché non è altro essere che lui possa derivare o aspettare, atteso che abbia tutto l'essere; non si corrompe perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa; non può sminuire o crescere, atteso che è infinito, a cui non si può aggiungere, così è da cui non si può sottrarre, per ciò che lo infinito non ha parti proporzionabili”.

Fu probabilmente da queste idee che Blaise Pascal trasse il noto aforisma secondo il quale l’universo è una sfera infinita il cui centro è dovunque e la circonferenza in nessun luogo.


(2) Questa idea di deviazione eccezionale connessa al concetto di clinamen è stata ripresa in senso surreale da Alfred Jarry, il creatore della patafisica. Nel romanzo Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico (1911), Jarry parla de “la bête imprévue Clinamen” (l’imprevista bestia clinamen). Secondo questa interpretazione, Epicuro ha compreso per primo che c’è una aberrazione infinitesimale, “un'indeterminazione”, al centro di ogni possibile spiegazione del mondo. L’oulipiano Georges Perec ha chiamato clinamen la possibilità di «une légère dérive» in grado di distruggere il sistema delle costrizioni.

martedì 24 novembre 2009

DDT


A mosquito was heard to complain
That a chemist had poisoned his brain
The cause of his sorrow
Was paradichloro
Diphenyltrichloroethane.


Si lamentava una zanzara di Bracciano
perché le avevano avvelenato il pantano.
Tutto ciò per il lavoro
dell’1,1,1-tricloro-
2,2-bis(p-clorofenil)etano

Il limerick fu composto alla fine degli anni ’50 dal chimico australiano D. D. Perrin (allora al Dipartimento di Chimica Medica dell’Università di Canberra). La figlia assicura che la poesiola valse all’autore un premio in danaro a un concorso indetto da una pubblicazione scientifica, che fu utilizzato per l’acquisto di un dizionario della lingua inglese. Il limerick è comparso come anonimo in The Penguin Book of Limericks, 1984.

(Para)diclorodifeniltricloroetano è uno dei nomi con i quali è conosciuto il DDT (nella traduzione ho utilizzato, per ragioni di metrica, il nome 1,1,1-tricloro-2,2-bis(p-clorofenil)etano secondo la nomenclatura IUPAC). Non voglio qui affrontare la controversa storia di questo composto aromatico, messo al bando per la sua non indiscussa cancerogenicità dopo decenni in cui si sono lodati i benefici apportati nella lotta contro la malaria e nella bonifica di aree paludose. Voglio solo far notare come il lungo nome chimico inaspettatamente ben si adatta alla scansione del limerick, anche se con qualche piccolo adattamento (ad esempio, nell’originale, cloro non ha lo stesso suono di sorrow).

Anch’io mi ero cimentato con la nomenclatura chimica, limitandomi alla pronuncia italiana della formula bruta di un composto, il cianuro di potassio:

Babbo Natale ormai centenne
aveva la casa piena di renne.
Scrisse a Gesù Bambino
un piccolo bigliettino:
“Posso usare il KCN?”

domenica 22 novembre 2009

Virginia Boldrini, o della leggerezza


Mi piace ogni tanto recarmi nei reparti per bambini delle librerie e sfogliare i libri illustrati, commentati da brevi prose, da poesiole e filastrocche: Geronimo Stlton è già per grandi. Ogni tanto ne acquisto e presto o tardi ne parlerò. Se lo faccio è forse perché ogni tanto mi fa bene abbandonare le consuete letture, forse, come dice qualcuno, perché sono un melancolico saturnino, forse perché nelle pubblicazioni per il pubblico infantile ritrovo il gusto del nonsense, del gioco con le parole, del verso costruito sul suono e non sul significato. Non a caso mi piacciono i maestri inglesi del genere, Lewis Carroll e Edward Lear, e quelli italiani, Gianni Rodari e Toti Scialoja.

Dei libri per bambini amo poi la semplicità delle storie, il mescolarsi di realtà e fantasia, la leggerezza che pervade l’insieme di immagine e parola, un po’ come accade nei limerick. Non sono il solo a coltivare queste passioni. Molti ludolinguisti, brutta parola che indica chi subisce il fascino irresistibile del gioco con le parole, scrivono e traducono poesie e filastrocche con lo stesso spirito della letteratura per l’infanzia. Recentemente mi sono imbattuto in una scrittrice che scrive proprio in questa maniera, semplice, leggera, talvolta allegramente irrispettosa della metrica. Lei afferma di sentirsi una dilettante, insicura del proprio talento, e di aver iniziato a scrivere dopo aver frequentato un corso di scrittura creativa con Paolo Albani, nostro comune conoscente e grande esperto di bizzarrie letterarie. Sì, però intanto ha già pubblicato due raccolte di limerick accompagnate dai suoi disegni, rispettivamente con postfazione dello stesso Albani e prefazione di Stefano Bartezzaghi. E, in precedenza, il lavoro collettivo frutto del corso di cui ho parlato, da lei curato, è stato recensito positivamente da un grande ludologo come Giampaolo Dossena. Sto parlando di Virginia Boldrini.

Virginia Boldrini è nata a Mirandola nel 1951 e ora vive a Udine. Ha scritto per ringraziarmi di averla citata nel mio articolo sul limerick in Italia e mi ha fatto avere, con cortesia d’altri tempi, le sue pubblicazioni e anche alcuni inediti. Non mi resta che presentare qualche saggio dei suoi componimenti, invitando il lettore a procurarsi i libri che troverà elencati.

Da Viaggio a Limerick e dintorni, Campanotto Editore, Pasian di Prato, 2006
(99 limerick illustrati, con una postfazione di Paolo Albani).

C'era un piccolo ciabattino di Portofino
Aveva pochi clienti e lavorava solo al mattino
II pomeriggio spesso se ne andava a pescare
Prendendo pochi pesci e molte scarpe da riparare
Quel gran lavoratore del ciabattino di Portofino.


C'era un veterinario davvero singolare a Voghera
Aveva come pazienti draghi unicorni e una chimera,
Quando nel suo studio entrò un pechinese
Si spaventò molto e chiuse per un mese
Quell'impressionabile veterinario di Voghera.



C'era un uomo molto anziano di Casoria
Che perdeva a poco a poco la memoria.
Un giorno dimenticò la data del compleanno
Così decise di far festa 365 giorni l'anno
Nessun uomo fu più festeggiato a Casoria.


Da Limerick, 99, Joker, Novi Ligure, 2009
(99 limerick illustrati, con una prefazione di Stefano Bartezzaghi).

C’era uno scrittore di Portiole
Che inventava molte parole.
L’ultima era “Scricione”,
utile in più di un’occasione.
Quel vulcanico inventore di parole.

C’era una poetessa di Montenotte
Che aveva ideato le filastrotte.
Poesie di otto versi
Di argomenti controversi
Conosciute solo a Montenotte.

Filastrocche inedite

Disordine

Giro in tondo nella stanza
Senza un filo di speranza.
Anche il tavolo è sommerso:
tanti libri e tempo perso.
Non c’è più il vocabolario,
introvabile anche il diario.
Troverò la mia matita?
No, anche quella è sparita.
E i miei nuovi pennarelli?
Son scomparsi pure quelli.
I colori nei tubetti?
Vedo il rosso sopra i tetti,
vedo il verde nel giardino
ed il nero nel camino.
Forse il bianco era finito,
l’azzurro, invece, è infinito.
Ecco! La gomma è sbucata
dalla frase cancellata.
Le parole le ho trovate,
sono poche, ma appropriate.
Serve un evidenziatore
O almeno un bel colore.
Ho la penna consumata,
la matita è appena spuntata
Ma in questa confusione
Non ho più l’ispirazione
Io ne avevo in abbondanza
Non di certo in questa stanza.
Finalmente ho un foglio bianco,
ma non scrivo, sono stanco.

Favola finita

Un giorno per vincere solitudine e dolore
mi sono inventata un nuovo amore.
All'inizio è stato meraviglioso
io insignificante, lui bello e famoso.
Dopo un mese lo volevo cacciare
ma il mio “principe” si ostinava a restare.
Ora le chiedo:" Cosa posso fare?"
Neppure con la fantasia si può cambiare?
Cenerentola

Disegno

Ho disegnato una collina
e una casa lassù, in cima.
Ho disegnato una finestra illuminata,
un albero pieno di luci
e una famiglia indaffarata.
Ho disegnato un camino che fuma
e una notte nuvolosa,
i primi fiocchi di neve
e una figura frettolosa.
Ma la magia che ha trasformato
un foglio di carta in paesaggio incantato
non so spiegarla,
io non l’ho disegnata.


Da Un’idea tira l’altra. Esercizi di scrittura ri-creativa. A cura di Elisabetta Pertoldi e Virginia Boldrini, Campanotto Editore, Pasian di Prato, 2004
(Giochi linguistici à contrainte).

Varianti alla Toti Scialoja

Non c’è rosa senza spine
Non c’è riso senza spuma.
Non c’è resa senza spia.
Non c’è raso senza stima.
Non c’è rissa senza sfida.

Proverbi stravolti

Al pupo! Al pupo!

Mi sono trovata con un pugno di maschi.

Ho raggiunto una veranda età.

Mia figlia è viziata, è sempre vissuta nella barbagia.

Raccontino con soggetto non umano

La giornata era proprio gelida, avevo freddo, nessuno mi prestava attenzione. Non avevo niente per coprirmi, ma nessuno si preoccupava. Poi è passata una signora, si è fermata, e mi ha preso e mi ha portato via con sé. Ha cercato un vestito per me, azzurro, e me l’ha fatto indossare. Il freddo è passato. Sono una bambola e ora vivo con lei.


sabato 21 novembre 2009

L’ingegner Gadda, Alessandro Volta, il metano


Nella seconda metà del ‘700 si cominciò a studiare sistematicamente la natura dei gas ad opera dei chimici pneumatici. Nel 1750, il medico scozzese J. Black studiò le proprietà delle sostanze che oggi sono note come carbonato basico di magnesio e ossido di magnesio, perché era interessato a comprendere il funzionamento delle basi che venivano utilizzate nella cura dei calcoli alla vescica. Nel corso delle sue ricerche isolò per primo il biossido di carbonio, che egli chiamò aria fissa, intuendo che si trattava di una sostanza diversa dall’aria che normalmente si respira. Fu l’aria fissa a convincere i chimici della generazione successiva che era possibile analizzare e sintetizzare le sostanze inorganiche riconducendole non più agli elementi aristotelici o ai principi paracelsiani, che mai si erano potuti vedere, ma a nuovi elementi, isolabili chimicamente e dotati di precise caratteristiche chimiche. Dopo il biossido di carbonio fu la volta dell’ossigeno (Scheele 1771, e Priestley, 1774) e dell’idrogeno (Cavendish, 1776), ma gli scienziati erano a conoscenza anche di una specie di “aria infiammabile” che si poteva trovare presso le paludi, i pozzi neri e i letamai, dove si decomponeva del materiale organico. Fu Alessandro Volta (1745-1827) il primo a identificare e isolare in quell’aria infiammabile il metano e a studiarne le proprietà di combustibile. Di questo primo risultato dello scienziato comasco, precedente i celeberrimi studi sull’elettricità, parla Carlo Emilio Gadda nelle vesti di divulgatore scientifico, in un articolo pubblicato originariamente nel 1956 che traggo, come il precedente che potete trovare in questo blog, da Azoto e altri scritti di divulgazione scientifica, edito nel 1986 dalla Libri Scheiwiller con il contributo della Montedison.

Gadda, con lo stile che gli è proprio, illustra le modalità della scoperta prendendo spunto dalle lettere inviate da Volta all’amico Carlo Giuseppe Campi (1738-1790), che era stato suo insegnante e aveva tradotto in italiano e pubblicato gli scritti di Benjamin Franklin nel 1774. Lo scrittore lombardo non omette di evidenziare le ingenuità di Volta, in un’epoca in cui erano ancora vive concezioni come quella del flogisto, il misterioso principio di infiammabilità contenuto nei metalli (che sarà abbandonato dopo la legge di conservazione della massa di Lavoisier), e non erano ancora note le proprietà comburenti dell’ossigeno. Si tratta di una lettura che raccomando per comprendere come la ricerca scientifica proceda per tentativi ed errori, sia un impresa collettiva e richieda tanto l’osservazione e la sperimentazione quantitativa quanto l’elaborazione teorica.

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Alessandro Volta e il metano

(…) Nel 1776-77, al tempo dell’«aria infiammabile», era nel suo trentaquattresimo anno: un giovane: ma con un valido corso, al suo attivo, di letture, di meditazioni, di esperimenti nella povertà dei mezzi e dei sussidi, e in una tal quale scarsità e durezza del vivere. Tutti riconosciamo in lui non soltanto l'uomo serio e modesto di altissimo ingegno, ma l'appassionato fedele della «verità scientifica» e della ricerca di codesta verità, l'osservatore del «fatto naturale», il devoto alunno dello «sperimento», ch'egli medita, predispone, eseguisce, integra con la potente ragione. Grati alla sua geniale fatica amiamo in lui il concittadino onesto, fermo, sano, saggio; l'uomo che fu in corrispondenza con Lavoisier, con Priestley, con Laplace, che richiama ad onore Newton e Boerhaave e Franklin, che mostra d'aver a mano e direi sott'occhio le loro opere o le loro lettere, e ne medita i paragrafi e gli enunciati: e nelle sue li discute, li discrimina. Il Volta del 1776-77 è per professare fisica nelle Scuole di Como, ma non anco docente universitario allo Studio di Pavia: lo sarà nel '79. (…)

L'«aria infiammabile delle paludi», cioè il metano, si sviluppa in bolle (in gallozzole dice il Volta) dai fondi degli stagni, dai cumuli di alghe putride o dalle radici dei canneti, e ovunque siano degli steli o sia del legno a marcire. Mescolandosi all'aria, entro certe proporzioni, da luogo ad una miscela esplosiva: ossigeno (dell'aria) più metano: O2 + CH4. Il metano è l'insidioso e terribile grisou delle miniere, massime delle miniere di carbone. È il costituente principale delle sorgenti gassose infiammabili, uno dei componenti delle cosiddette mofete (ivi mescolato ad acido carbonico CO2) e delle cosiddette putizze (ivi mescolato ad acido solfidrico H2S): si libera, è noto, fra i prodotti di distillazione secca del legno, della torba, dei carboni fossili. (…)

Si tratta di sette lunghe lettere indirizzate dal Volta al Padre Carlo Giuseppe Campi. Riguardano il ritrovamento del metano che esala dai canneti dei laghi, dalle pozzanghere, dalle gore paludose, dagli aquitrini melmosi, dai cumuli di letame in fermentazione. La prima lettera è datata da Como il 14 novembre 1776: le altre sono del 21 e 26 novembre, 18 dicembre; 2 gennaio, 14 gennaio, 15 gennaio 1777, tutte da Como. Il volumetto, di 147 pagine, reca eleganti incisioni nelle testate d'ogni lettera: raccolta dell'aria infiammabile ossia del metano in caraffe capovolte sull'acqua, sullo specchio lacustre: sperimenti di accensione e di combustione del medesimo. (…).

Il volumetto si apre con una missiva dedicatoria (del 15 gennaio '77 essa pure): All'Illustrissimo - Signor Marchese - Francesco - Castelli. «Se negli anni addietro, Illustrissimo Signor Marchese, mancava cos'alcuna alla felice Lombardia Austriaca, perché direttamente» (cioè a buon diritto) «potesse gareggiare colle più famose contrade d'Oltremonti», (oggi diremmo d'oltralpe) «era lo Spirito d'Osservazione, e delle Sperienze». Osservazione. Sperienze. È il «la» nella musica mentale del grande Volta, che in ciò sembra togliere a sua divisa il celebre motto dell'accademia fiorentina del Cimento, istituita nel giugno del 1657 da Leopoldo de' Medici, l'ultimo figlio di Cosimo II e perciò il minor fratello del Granduca Ferdinando II. «Provando e riprovando», col fornello e coi tre crogioli, fu l'impresa del Cimento. La battuta, ben sapete, è ripigliata da Dante: solchè nel Paradiso dantesco ell'ha un senso meramente logico, vale «dimostrando e ridimostrando per sillogismi». Il Cimento, riprendendola dal Poeta con reverente, con sottile ironia, gioca sul doppio significato del vocabolo, al quale attribuisce il valore ch'esso avrà quind'innanzi per i fisici: «sperimentando e ripetendo l'esperimento».

Quanto poi al marchese Castelli, si trattò d'un brav'uomo, il quale operava da «privato». Seguitò per una cinquantina d'anni a raccattare, e ad accatastare nel suo palazzo imprevedibili paradigmi di crogioli, di fornelli: distillatori, storte, carni le, pinze, grossi barometri torricelliani: tutta la genia polverosa dei vetri e dei turaccioli di che il profano si attedia, e al solo vederli si preoccupa «di non domandare a che cosa servono».

Egli incoraggia il Volta a dare alle stampe le sue lettere: le quali ci recano oggi menzione della scoperta (dell'aria infiammabile) e della conseguente indagine voltiana circa la natura, la consistenza, la accensione, la combustione di quest'aria medesima, che conosciamo essere il gas CH4. Tommaso Henry ne stabilì, 1805, la formula; Marcellino Berthélot, il celebre chimico, arrivò, 1856, ad ottenerlo per sintesi.

Padre Campi aveva osservato (autunno 1776) delle scaturazioni di aria infiammabile nei pressi di San Colombano al Lambro e ne aveva riferito ad Alessandro Volta. Sfumato il disegno di recarsi in loco ad ottobre con un gruppo di «amatori della Scienza» il Volta s'era dato a barcheggiare, a cercare: cioè a rimestare con un legno certi fondi lacustri del suo Lario e del non remoto Verbano: Como, Angera. S'avvide che, muovendo la melma, dell'aria infiammabile aggallava gorgogliando: e la captò in certi vasi di vetro capovolti sull'acqua. Si prese la briga di accostarvi uno zolfanello acceso, una candela; esito costante la fiamma. Ecco, dalla prima lettera (Como, 14 novembre 1776): «Lo svolgersi e il salir su dal fondo attraverso l'acqua (di) vivi gorgogli di aria infiammabile, fenomeno estremamente curioso, in quanto ci sembra o raro, o quasi nuovo, e ci apre la via ad altre importanti ricerche, non è né debbe più riputarsi cosa propria della sorgente da voi osservata» (e invece sì, poiché a San Colombano il gas CH4 era di provenienza geologica) «da poi che io ho raccolto di tal aria in diversissimi siti, da laghi, da stagni, da fonti; ove però non si voglia aver in conto di singolar prerogativa il gorgogliare spontaneamente e tratto tratto» (cioè per impulsi naturali intermittenti) «e in copia grande, come fa l'aria del vostro fonte, quando negli altri conviene, per lo più, eccitare il gorgoglio, con rimestare il fondo».

E nella lettera seconda (da Como, 21 novembre): «Alcuni fossati e certe acque morte, corrotte e puzzolenti brulicano tutte di gallozzole d'aria solo che dolcemente se ne smuova il fondo; anzi, molte di cotali bolle veggonsi comparire qua e là spontaneamente... portatesi a galla, durano ivi gran tempo senza crepare». Altre volte rimuove il fondo nerastro «d'un terreno paludoso, lasciato quasi in secco pel ritiramento del nostro Lario» e provoca l'esalazione di gas con l'affondar nel suolo un bastone, «là dov'era più nericcio o d'erbe guaste ricoperto», così da ricavare un piccolo invaso a bicchiere. Presenta una candelina accesa alla bocca dell'invaso. «Era pur bello il veder nascere subitamente una fiamma azzurrina». Ricavate poi in terra molte fossette contigue, «gli occhi non sapean saziarsi di mirare la fiamma scorrere da una all'altra, ed ora a questa ora a quella appiccar fuoco...» (lettera seconda, pagina 19).

Dal finale della seconda lettera in poi, Don Alessandro considera l'accensione e l'infiammabilità della «sua» aria, al fine di identificarne l'essenza, le proprietà, l'utilizzazione eventuale. Paragona l'aria infiammabile da lui raccolta ad altre arie infiammabili (p. e. a quella che sappiamo essere idrogeno, da acido solforico e limatura di ferro), cerca d'interpretare il significato e la consistenza del fumo, polemizza col Boerhaave riguardo al «puro infiammabile», che il Boerhaave sosteneva esser l'alcool etilico, mentre lui, Volta giurerebbe il metano.

Il nostro fisico è scrittore avvincente, elegante: il suo referto accurato ci viene incontro come un bel disegno, evoca il fatto con estrema nitidezza, e le circostanze del fatto: si penserebbe al Manzoni. Ma s'imbatte in una terminologia pressoché invalida alla quale metton capo, senza ch'egli tuttavia lo sospetti, le idee moribonde del tempo. Egli ricorda (lettera quinta, pagina 69) che l'aria infiammabile, certe volte non s'infiamma per nulla, quando, per esempio, nella caraffa piena s'introduce un carbone. «Un carbone rovente non alluma l'aria infiammabile, ma anzi sommerso in essa vi si estingue». «Se però il carbone è gagliardamente attizzato, non così tosto vien presentato alla bocca della caraffa, ecco l'aria (infiammabile) s'accende...».

In realtà egli erra nel valutare i due fatti: il metano accende nel secondo caso non tanto perché il carbone sia «gagliardamente attizzato» quanto perché viene accostato alla bocca della caraffa, là dov'è presente anche l'ossigeno dell'aria atmosferica. Immergendolo, si spegne soffocato per mancanza di ossigeno.

Certo progresso egli fa quando ammette che prima di dar luogo alla fiamma alcuni combustibili solidi (carboni, legno) subiscano un processo di gassificazione (noi sappiamo parziale), di distillazione secca. Ma poi nega al Boerhaave e ad altri che nel fumo sussistano «carbonchioli», cioè particelle di carbone polverizzato, non bruciato. I fenomeni della combustione imperfetta, per cui la ciminiera effonde CO e CH4 e granuli di carbone incombusto, sono un guaio tecnologico dei più frequenti, dei più evidenti.

Paragonata allo zolfo, alla polvere da sparo, l'aria infiammabile si manifesta più pronta ad accendersi: «Sì, ella è di tempra delicatissima, è prontissima ad ardere, avvampando finanche per l'urto momentaneo d'un fomite, a cui resistono gli altri corpi. In una parola ella è tutta infiammabilità» (lettera quinta, pagina 77). Siamo piuttosto lontani da quello che verrà chiamato, nell'Ottocento, il «sapere scientifico». (…)

Se il vocabolo gas, con particolare applicazione ai gas carbonici e solforosi, naturali o preparati, era già stato coniato da Van Helmont un secolo avanti, in italiano (1775) valeva ancora la parola «aria», plurale «arie», come del resto in inglese. (…) Questa parola comportava il rischio, a non dire la certezza, di un equivoco nozionale insuperabile, cioè di una errata nozione circa la costituzione dei gas: e riusciva, beninteso, di ostacolo a un'indagine ulteriore. È legge pressoché generale, nel meccanismo della conoscenza, che un errore di linguaggio, in quanto errore di rappresentazione, induca in altre rappresentazioni «sbagliate», in altri abbagli, in ulteriori stravaganze.

Galileo, nel suo famoso Dialogo (1629) ci mostra, fra l'altro, come un linguaggio inadeguato ci risospinga indietro verso una cognitiva inadeguata. Il Manzoni sembra aver tratto dal Dialogo di Galileo, dalle argomentazioni di Simplicio, i ragionamenti del suo Don Ferrante, così ferrati nella sillogistica, così stupendamente spropositati di fronte alla realtà della peste, che deposita il filosofo all'altro mondo. Alessandro Volta, nel suo ascendere verso le regioni della fiamma, verso la sfera del fuoco, non poteva non ritrovarsi zavorrato dalla terminologia «scientifica» e soprattutto dalle idee «fisiche» e «chimiche» del tempo, dalle immagini vigenti allora circa le «arie», dette oggi gas. Anzitutto: si credeva che l'aria atmosferica fosse una entità elementare (e non una miscela, come di fatto è) più o meno dotata della capacità d'infiammarsi (deflogisticata-flogisticata), che fosse un «elemento», uno dei quattro di Empedocle: (terra, acqua, aria, fuoco). Con le scoperte di Priestley (azoto, 1776: respirazione delle piante) e con le ulteriori di Cavendish (isolato d'idrogeno, 1776-78: proprietà dell'idrogeno: composizione dell'acqua) e di Lavoisier (ossigeno, acido carbonico, essenza e composizione dell'aria) tutto il castello delle idee sbagliate rovinò, come un castello di carta investito da sternuto. Si vide con chiarezza che l'aria... non è un'aria semplice: è un'aria composta: ossigeno 21 per cento, azoto 78, altri gas 1 per cento. L'aria (atmosferica) flogisticata di Stahl e dei seguaci flogistici è, nelle lettere stesse di Volta, l'aria che ha ripreso il flogisto per aver dato fuoco e fiamma: dunque proporzionalmente più ricca di azoto, e «satura» di acido carbonico: proprio il contrario di quanto uno (oggi) si aspetterebbe. Al limite è una miscela... di azoto e... di acido carbonico. Per contro l'aria deflogisticata è quella che ha buttato fuori il suo flogisto, rendendolo disponibile per un bel focherello. È l'aria ricca di ossigeno: al limite è l'ossigeno. Ciò risulta in modo indubbio da numerosi passi delle lettere voltiane: p. e. lettera terza, pagina 73; lettera settima, pagina 131: immergono uno zolfanello acceso nell'aria deflogisticata. «Non sapevamo saziarci di rimirare la fiammella cilestre, al primo toccar dell'aria, avvivata prodigiosamente e di luce candidissima risfolgorante». Si trattava dunque di ossigeno, certo non di azoto, dove la fiammella si sarebbe estinta. L'aria deflogisticata ha messo fuori il suo flogisto, la sua «buona disposizione» (ibidem) e il metano si accende. Come dire che un orologio va perché ha «messo fuori» la voglia di fare tìc tàc: o che un motore elettrico gira perché «ha messo fuori» la buona disposizione a girare, mentre prima, da fermo, se la teneva ricucita nelle trippe. E ancora, ibidem pagina 131-132 «dentro all'aria deflogisticata che è quanto dire sitibonda e bibace del flogisto...» (dunque, dentro l'ossigeno) «...alcuno dei colori giallo, rossiccio, azzurro, compagni sol di fiamma languida e poco vorace, vi può mai aver luogo; fintante che a poco a poco, deteriorandosi anche quell'aria, pel flogisto che dal corpo che arde vi si scarica addosso, non viene a toccare a mezzana condizione dell'aria comune, o è depravata anche più in là». All'aria comune del corpo che arde «si scarica addosso» (frase deliziosamente coniata, e direi popolare) acido carbonico CO2 = gas residuo della combustione totale del carbonio.

Il Volta non distingue, né altro poteva allora accadergli in quel palude di bubbole e di gazzòzzole, non distingue fra miscela e gas elementare, fra aria viziata dai residui della combustione, per esempio da CO2, e aria depauperata di azoto, arricchita dunque (proporzionalmente) di ossigeno. E chiama ancora aria (infiammabile, è vero) il metano, o in genere, col tempo suo, un gas risultante dalla miscela di più gas, elementari o composti, utili o inutili (cioè combustibili o no), poniamo la miscela classica metano + idrogeno + prodotti carboniosi «volatili» + azoto + acido carbonico.

Scarso è ancora il senso della complessità degli ingredienti secondari, occasionali, provvisori, in una data miscela, da distillazione o da combustione imperfetta: e delle continue mutazioni di equilibrio chimico o semplicemente percentuale tra i vari composti, in relazione soprattutto al regime termico, al tempo.

Per giungere alla conoscenza dell'aria e, poi, del metano, ci volevano ancora alcuni anni, molte idee nuove e chiare, le comunicazioni di Priestley, la rivoluzione scientifica promossa da Lavoisier, Antonio Lorenzo Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, l'uomo appunto dell'aria (atmosferica), dell'ossigeno, dell'azoto, il signore della sempiterna bilancia, il «fermier général» (appaltatore generale delle imposte), colui che ricinse Parigi di una inesorabile cintura... daziaria: le mur d'octroi. Scrive di lui A. Quartaroli (Storia della chimica): «Lavoisier comprese per primo la funzione chimica e biologica del l'ossigeno (ossidazione; combustione; respirazione animale) e ne fece il centro di un sistema scientifico in senso moderno. Il fenomeno della combustione, per merito suo, esce dalla confusa penombra delle teorie flogistiche: (Stahl e seguaci). Egli escluse una volta per sempre che il calore fosse una sostanza: lo concepì come un fatto».

Il Volta ci dimostra, con le sue lettere, di avere intuito e di sicuramente credere che l'«aria infiammabile delle paludi», il metano della futura formula di Henry e della futura chimica organica, è un aeriforme ben caratterizzato; il quale si raffiguri in due costanti, geofisica e fisica: emana dai fondali paludosi, dagli acquitrini: si accende all'accostarvi la candela accesa, e da fiamma bluastra. Il Volta intuisce altresì che l'«aria infiammabile» delle miniere di carbone (il grisou) gli somiglia molto, se pur non è la stessa cosa: e avendo constatato che il «suo» metano può esplodere, ove si affochi in determinate circostanze (noi sappiamo: in determinate proporzioni con l'aria) ci ricorda di avere scritto a Giuseppe Priestley per... avvertirlo del pericolo. Badino, i minatori del Nord, a non soffregare l'acciarino in presenza di aria infiammabile mescolata con l'aria... ordinaria. Il Volta ha dunque individuato una entità geologica o almeno geofisica, e quando anche non sia stato in grado di riconoscerne la formula, cioè la vera natura, il titolo di scopritore del «gas delle paludi» gli spetta direttamente, cioè a buon diritto.

martedì 17 novembre 2009

Hardy e l’eclisse


At a Lunar Eclipse

Thy shadow, Earth, from Pole to Central Sea,
Now steals along upon the Moon's meek shine
In even monochrome and curving line
Of imperturbable serenity.

How shall I link such sun-cast symmetry
With the torn troubled form I know as thine,
That profile, placid as a brow divine,
With continents of moil and misery?

And can immense Mortality but throw
So small a shade, and Heaven's high human scheme
Be hemmed within the coasts yon arc implies?

Is such the stellar gauge of earthly show,
Nation at war with nation, brains that teem,
Heroes, and women fairer than the skies?

Da Poems of the past and the present


A un’eclisse di luna

La tua ombra, Terra, dal Polo al Mare Centrale,
ora si distende sul mite splendore della Luna
in una linea regolarmente monocroma e arcuata
di imperturbabile serenità.

Come collegherò tale simmetria disegnata dal Sole
con la forma turbata e irregolare che so tua,
quel profilo, placido come un orlo divino,
con continenti di fatica e sofferenza?

E come può l’immensa Mortalità proiettare
un’ombra così piccola, e l’alto schema umano del Cielo
essere bordato dalle coste che il tuo arco comporta?

È questo che il calibro stellare mostra del pianeta,
nazione contro nazione, cervelli che formicolano,
eroi, e donne più belle che i cieli?

Torno a fare la persona seria proponendo ancora una volta un poeta inglese. Non lo faccio apposta, ma è che la poesia inglese è molto affascinante e si occupa della natura in un modo che trovo vicino alla mia sensibilità. Quando ho letto questa poesia per la prima volta credevo che fosse più datata, poi in calce ho letto che è di Thomas Hardy ed è stata scritta nel 1902.

L’opera di Thomas Hardy (1840-1928) collega l’epoca vittoriana con quella moderna. Essa rivela i cambiamenti che trasformarono l’Ottocento e segnarono l’irrompere del moderno: il declino della religione, la crisi del perbenismo moraleggiante, la fine delle speranze positiviste, soprattutto la crescente consapevolezza che il progresso morale non è conseguenza inevitabile di quello scientifico e tecnologico.

Hardy si considerava esclusivamente un poeta, perché la sua prosa fu quasi sempre un mezzo per guadagnare denaro. I suoi racconti erano concepiti per uscire a puntate sui periodici e risentono delle esigenze degli editori e dei lettori: un colpo di scena in ogni puntata e nessuna situazione o parola che potesse offendere il pubblico femminile. Ciò nonostante, scrisse opere che, almeno nella versione per la pubblicazione come romanzo, incontrarono e incontrano ancor oggi un certo apprezzamento, soprattutto Via dalla pazza folla (1874) e Tess dei D'Urbervilles (1891), entrambi rilanciati dalle versioni cinematografiche che ne hanno tratto rispettivamente John Schlesinger nel 1967 e Roman Polanski nel 1979 (con una meravigliosa Nastassia Kinski).

Sebbene i romanzi di Hardy raramente abbiano un happy end, egli affermava di non essere un pessimista, definendosi piuttosto un “meliorist”, termine che mi rifiuto di tradurre per le implicazioni politiche che possiede in Italia. Diciamo che lo scrittore riteneva che un po’ di felicità è concessa all’uomo solo se si rende conto del suo posto periferico nell’universo e lo accetta. Hardy, che da giovane voleva diventare pastore anglicano, con la maturità abbandonò il cristianesimo, lesse Darwin e accettò l’evoluzionismo; più tardi fu colpito dal pensiero di Schopenhauer e sviluppò il concetto di Volontà Immanente, la forza cieca che guida l’universo e che nel futuro potrà raggiungere l’autoconsapevolezza. Un’idea non troppo ottimista per la vita del singolo, ma che lascia spazio alla speranza.

Raccogliendo poesie scritte fin dalla giovinezza, Hardy pubblicò la sua prima raccolta, Wessex Poems, nel 1898, quasi cinquantenne. Come si nota nell’esempio che ho riportato, il suo stile utilizza la dizione vittoriana con generi e metrica regolari, distanti da quello che ci si può aspettare per i primi anni del ‘900. Sono il lessico, spesso derivato dal linguaggio quotidiano, e la cupa visione della condizione umana a farne uno dei primi inglesi contemporanei.

Le altre raccolte poetiche furono pubblicate a intervalli più o meno regolari, da Poems of the Past and Present (1902), fino a Winter Words (1928), uscito postumo nell’anno della sua morte. La raccolta più famosa di Hardy è Satires of Circumstance (1914), ma molti ritengono che il suo capolavoro sia il dramma in versi The Dynasts (1903-1908), saga dell’era napoleonica in 19 atti e 130 scene, che dipinge tutti i personaggi, imperatore compreso, come marionette nelle mani della Volontà Immanente, versione moderna del fato degli antichi.

Il verso finale è per me da incorniciare, con quelle women fairer than the skies che è un atto d’amore al genere femminile al quale volentieri mi associo.

domenica 15 novembre 2009

Storia di un positrone


Un positrone un po’ abbacchiato
se ne andava dal futuro al passato,
meditando su quanto sia seria
l’esistenza dell’antimateria.

Nell’universo è cosa antipatica
esser diffusi in dose omeopatica,
con la minaccia d’incontrare per via
la propria compagna di simmetria.

Non è certo gran soddisfazione
annichilirsi con un elettrone,
per dare vita, con forti emissioni,
a una coppia di sciocchi fotoni!

Morire in questo gran patatrac
per far felici Feynman e Dirac?
Girare con puntata una colt
su 511 kiloelettronvolt?

Oggi è felice, ha trovato lavoro:
fa il medico, un posto d’oro;
esegue PET, non è cosa ostica,
un esame della pratica diagnostica.

Una questione tuttavia l’addolora,
e ancor si lamenta come allora:
aver fornito in tempi antichi
un po’ di fama a Tonino Zichichi.

Questa specie di filastrocca di metro irregolare e rima baciata mi è venuta fuori quasi di getto, leggendo di antimateria su un libro di testo.

giovedì 12 novembre 2009

Intervallo enigmistico: due rebus crittografici

Ho cercato su Il dado e l’alfabeto. Nuovo dizionario dei giochi con le parole (Zanichelli, Bologna, 2004) di Giampaolo Dossena una definizione del giochino enigmistico che propongo, ma non sono riuscito a incasellarlo in un tipo. Non è una crittografia, perché l’esposto dell’indovinello non è fatto da sole lettere o parole (casomai alterate nelle dimensioni e nella forma) componibili con i caratteri tipografici; non è neppure un rebus, perché non è fatto da sole immagini, semmai accompagnate da qualche lettera. È un ibrido, che mi diverto a chiamare rebus crittografico, nel quale lettere e immagini contribuiscono allo stesso modo alla soluzione. Esso è preceduto di un titolo, che fornisce una pista per la soluzione, e da una chiave, che indica il numero di lettere che compongono le parole della frase da trovare.

Ecco di seguito i rebus crittografici che sfido il lettore a risolvere (in realtà penso che non siano difficili). Interverrò nella discussione solo per fornire le soluzioni, tra un paio di giorni.

Alla base delle leggi (7, 6)


Un fatto storico (11,1,7)


Qualora il lettore dovesse pensare che il sottoscritto abbia inventato delle stupidaggini, rispondo in anticipo con una classica crittografia che ho trovato sul prezioso manuale del Dossena, che è la più difficile, oltre che la più bella:

Trovami (2, 2, 6, 3, 2, 4)



mercoledì 11 novembre 2009

All'incrocio delle verità differenti

Nel bellissimo film Rashōmon girato nel 1950 da Akira Kurosawa, con attore protagonista Toshiro Mifune, ambientato nel Giappone medievale, un boscaiolo, un monaco e un passante si fermano a parlare dell’omicidio di un samurai, ucciso da un brigante che avrebbe anche abusato della moglie di lui. I tre uomini danno tre versioni diverse dell'accaduto, facendo apparire responsabile di volta in volta il samurai, la donna o il brigante. Il film è diventato famoso, tra gli altri motivi, proprio per il montaggio dei flashback, in cui ciascuno dei personaggi racconta la propria verità come un ricordo, in un concatenarsi di finali multipli che invitano lo spettatore a riflettere sulla relatività e sulle mille sfaccettature della verità.

Lo stesso meccanismo è stato adottato dallo scrittore inglese Iain Pears ne La quarta verità (Longanesi & C., Milano, 1999), romanzo epistolare complesso, colto e raffinato, in cui l’omicidio di Robert Grove, un docente del New College, compiuto a Oxford nel 1663, è l’occasione per i racconti di quattro testimoni, ciascuno dei quali fornisce una versione interessata, diversa e verosimile dei fatti. Nel frattempo una ragazza, Sarah Blundy, viene accusata dell'assassinio e condannata all'impiccagione; durante il processo viene accusata di stregoneria e di comportamenti depravati. Quattro testimoni (un cattolico veneziano, Marco da Cola; uno studente in medicina, Jack Prestcott; un insegnante, matematico e teologo, John Wallis; uno studioso dell'antichità, Anthony Wood) per quattro "verità", in cui la stessa vicenda è vista da quattro prospettive diverse. Ciascuno di essi mette in risalto particolari veri, ma la diversa importanza attribuita a questi particolari porta a una ricostruzione differente dalle altre. Ma soltanto uno di loro dice tutta la verità. Due dei protagonisti del racconto, Wallis (tra le altre cose fondatore della Royal Society) e Wood, sono personaggi esistiti veramente, mentre fanno una breve comparsa anche figure storiche come John Locke e Robert Boyle.

Le quattro parti del racconto sono precedute da altrettante epigrafi prese dal Novum Organum di Francesco Bacone (1562-1626). Le prime tre descrivono tre dei suoi “idoli della mente”, mentre la quarta citazione è quella che dà il titolo originale del romanzo (An Instance of the Fingerpost, “Un’istanza cruciale”, dove l'aggettivo denuncia chiaramente la sua origine da crux). Ecco le quattro epigrafi:

1) Vi sono idoli che (…) chiamiamo idoli del foro, riferendoci al commercio e al consorzio degli uomini. Il collegamento tra gli uomini avviene per mezzo della favella, (…) e basta questa informe e inadeguata attribuzione di nomi a sconvolgere in modo straordinario l’intelletto, (…) Perché le parole fanno gran violenza all’intelletto e turbano i ragionamenti, trascinando gli uomini a innumerevoli controversie. (N.O., I, 43)

2) Gli
idoli della spelonca derivano dall’individuo singolo (…). Ciascuno di noi (…) ha una spelonca o grotta particolare in cui la luce della natura si disperde e si corrompe (…) per causa della diversità delle impressioni, secondo che esse trovino l’animo già occupato da preconcetti oppure sgombro e tranquillo (N.O., I, 42)

3) Altri idoli (…) sono penetrati nell’animo umano a opera delle diverse dottrine filosofiche e a causa delle pessime regole di dimostrazione; noi li chiamiamo
idoli del teatro; perché consideriamo tutti i sistemi filosofici (…) come altrettante favole preparate per essere rappresentate sulla scena, buone a costruire mondi di finzione e di teatro . (N.O., I, 44)

4) …Quando, durante la ricerca di una natura, l’intelletto sta incerto e come in equilibrio, nel decidere a quale tra due nature, o più di due, debba essere assegnata o attribuita la causa della natura esaminata, (…)
le istanze cruciali mostrano che il vincolo di una di queste nature con la natura data è costante e indissolubile (…) Così la questione è risolta (…) Tali istanze portano quindi una grandissima luce e hanno quasi una forte autorità; così che il processo dell’interpretazione qualche volta, giunto ad esse, in esse si arresta. Qualche volta le istanze di croce si rinvengono tra quelle notate in precedenza (N.O., II, 36).

Manca nelle citazioni scelte come epigrafe un riferimento al primo degli idola baconiani, cioè gli idoli della tribù, che sono i pregiudizi comuni a tutto il genere umano: è probabile che Pears abbia giudicato eccessivo un capitolo ulteriore!

L’ultima citazione fa parte invece della parte costruttiva del Novum Organum e riguarda il modo in cui deve essere organizzata l’esperienza della realtà. In questa sezione dell’opera il filosofo inglese elabora la sua teoria dell’induzione, basata sul confronto tra i vari casi, la loro interpretazione, la formulazione di ipotesi, la loro verifica sperimentale. Un lavoro lungo e difficile consente spesso di giungere all’ipotesi cruciale, la cui verifica chiarirà la causa e la natura del fenomeno in esame. Le idee di Bacone avrebbero costituito il sostrato del metodo sperimentale, basato però sull’analisi quantitativa e l'utilizzo del "linguaggio matematico", nato proprio nel secolo in cui è ambientata La quarta verità. Secondo Pears, dunque, solo il metodo scientifico consente (e non sempre!) di trovare la strada nella foresta delle opinioni, dei falsi idoli che allontanano dalla verità e che sono altrettante false piste per chi indaga.

(questo articolo è dedicato all’amico Paolo Pascucci)


domenica 8 novembre 2009

Da Emily Dickinson a Platone



A science—so the Savants say

A science—so the Savants say,
"Comparative Anatomy"—
By which a single bone —
Is made a secret to unfold
Of some rare tenant of the mold,
Else perished in the stone—

So to the eye prospective led,
This meekest flower of the mead
Upon a winter's day,
Stands representative in gold
Of Rose and Lily, manifold,
And countless Butterfly!


Una scienza, così dicono i Sapienti

Una scienza – così dicono i Sapienti,
"Anatomia Comparata" –
per la quale un singolo osso –
è costretto a svelare un segreto
di qualche raro inquilino dello scavo –
Altrimenti scomparso nella pietra –

Così all'occhio la prospettiva condusse
questo timidissimo fiore del prato
in un giorno d'inverno,
dorata rappresentazione
di Rose e Gigli, molteplici,
e di innumerevoli Farfalle!

Emily Dickinson (1830-1886) è considerata la più grande poetessa americana. Incominciò a scrivere attorno al 1850, quando si rinchiuse nella sua camera, al piano superiore della casa avita, e non ne uscì che raramente. Si cimentò per tutta la sua vita con stili diversi e varie forme poetiche. Assai prolifica, scrisse più di milleottocento liriche, ma essendo assai schiva e solitaria, ne pubblicò in vita solo sei. La sua opera fu divulgata dopo la sua morte dalla sorella Lavinia, che pubblicò tre volumi tra il 1891 e il 1896. Il lavoro di rinvenimento dell’opera completa della Dickinson continuò per decenni e poté dirsi completato solo nel 1955.

Dalle lezioni di Edward Hitchcock, suo professore di scienze naturali, la poetessa era a conoscenza dei metodi grazie ai quali il paleontologo era in grado di ricostruire dalle poche ossa rinvenute lo scheletro di un animale preistorico. Secondo la Dickinson, le indagini della scienza possono rivelare i segreti della natura, ma basta un occhio capace di guardare in prospettiva futura per vedere in un semplice fiore, spuntato timidamente quando è ancora inverno, il preludio della rinascita primaverile. Alla scienza è necessaria anche la meraviglia.

La lettura di questa poesia mi ha ricordato un passo del Teeteto di Platone, in cui Socrate interroga il giovane matematico Teeteto su che cosa sia la conoscenza. Al dialogo partecipa anche il maestro di costui, il matematico Teodoro, discepolo a sua volta del sofista Protagora.

SOCRATE: (…) Dunque: niente, di per sé, è uno; e a niente si può attribuire una determinazione o una qualità: se lo si dice grande, apparirà anche piccolo, se pesante, leggero, e così per tutto, perché niente è uno, né ha precisa determinazione o qualità. Tutto ciò che noi diciamo che è, diviene perché muta luogo, si muove, si mescola con altro; e perciò non è corretto dire che è, perché niente mai è, ma sempre diviene. E su questo punto tutti i sapienti, ad eccezione di Parmenide, bisogna dire che concordano: Protagora, Eraclito, Empedocle e i poeti più grandi. (...)
TEETETO: Come dici?
SOCRATE: Seguiamo l'affermazione che niente in sé e per sé è uno. Nero e bianco e ogni altro colore, allora, ci appariranno generati dall'incontro degli occhi con qualcosa che si muove verso essi, e ciò che diciamo questo o quel colore non sarà né ciò che va verso gli occhi, né gli occhi, bensì qualcosa che si genera tra essi e che si genera in modo peculiare per ciascuno. O non vorrai sostenere che un colore si presenti a un cane o a un altro animale come si presenta a te?
TEETETO.: No, certo, per Zeus!
SOCRATE.: E c'è qualche cosa che appaia uguale a un altro uomo e a te? Sei convinto di questo? O, ancora meglio, sei convinto che neanche a te stesso una cosa appare la stessa, per il fatto che neppure tu sei mai uguale a te stesso? (...)
TEETETO: Per gli dèi, Socrate, io sono straordinariamente meravigliato da queste apparenze; anzi talora, se mi metto a pensarci, mi vengono le vertigini.
SOCRATE: È evidente che Teodoro non si è sbagliato a giudicare la tua natura. Quel che tu provi, l'essere pieno di meraviglia, è infatti proprio del filosofo. Sì, il principio della filosofia non è altro che questo, e chi ha detto che Iride è figlia di Taumante [il verbo greco thaumàzein significa “meravigliarsi”, NdR] non mi pare abbia sbagliato genealogia. Ma capisci ormai come questi problemi derivino dalle teorie di Protagora, o no?
TEETETO: Non ancora, mi sembra, Socrate. (...)
SOCRATE: Se tutto è come appare, la parola "essere" va eliminata, anche se noi stessi l'abbiamo usata, per abitudine o per ignoranza. Così dicono questi sapienti; non solo: ma nemmeno va usato "qualcosa" o "me" o "questo" né alcun'altra parola che indichi qualcosa di stabile. Vanno invece adoperate espressioni conformi alla natura delle cose, e cioè che si generano, si fanno, periscono, si alterano. Se uno infatti rende stabile qualcosa con la parola, si espone subito a essere confutato. (...) Allora, Teeteto, ti sembrano di tuo gusto queste cose?
TEETETO.: Non saprei, Socrate. Non so neanche se tu le pensi o voglia mettere alla prova me.
SOCRATE.: Ma caro, non ricordi che io non so? (...)

giovedì 5 novembre 2009

Perchè? Perchè… - Divulgazione scientifica nel 1835


Il vecchio libretto è stato sempre in casa mia. Pare fosse di mio nonno Geminiano, che lo avrebbe ricevuto da suo padre, ai tempi in cui ancora la mia famiglia paterna abitava a Sassuolo. Mio nonno era del 1870, si trasferì a Cormano, poco sopra Milano, per fare il segretario comunale, si sposò tardi e generò tardi quattro figli, tra i quali l’ultimo fu mio padre, che nacque nel 1913. Ma non è della mia storia famigliare che voglio parlare, ma del libretto, un in-ottavo di 182 pagine un po’ consunto dal tempo, privo della copertina originale (ne feci fare una, cartonata, negli anni ’70), dal titolo PERCHÈ? PERCHÈ… ossia Spiegazione di moltissimi fenomeni della natura. Edizione seconda ritoccata ed aumentata dal dottor G. Pozzi. - Milano, dalla tipografia Fanfani, 1835. La sua importanza è rilevante, perché si tratta di una delle prime opere di divulgazione scientifica a livello popolare del nostro paese. Un testo fittissimo, impreziosito da quattro tavole in nero, offre uno spaccato delle conoscenze scientifiche disponibili ai lettori dell’epoca, presentate attraverso lo schema domanda e risposta (da cui il titolo Perchè? Perchè…).

Ho fatto una piccola indagine sull’autore, che potrebbe essere il Giovanni Pozzi (1769-1839), autore e traduttore di diverse opere di medicina e veterinaria, tra le quali Epizoozie bovine e metodi per impedire il contagio (1812), Materia Medica (1816) ed Elementi di Fisiologia, Igiene e Terapia (1821), che fu tra il 1835 e il 1838 professore e poi Direttore della Scuola di Farmacologia Veterinaria dell’Università di Milano, allora situata presso il Convento degli Agostiniani, l'attuale Chiesa di Santa Francesca Romana.

L’opera è organizzata in sei capitoli di lunghezza diseguale, a testimonianza vuoi dello sviluppo scientifico del tempo, vuoi degli interessi dell’autore:
I Dell’Aria e dei Vapori (pp 6-38)
II Dell’Acqua (pp. 39-76);
III Della Luce (pp 77- 108);
IV Del Calorico (pp. 109-136);
V Del fluido elettrico (pp. 137-149);
VI Del fluido magnetico (pp. 150-152).

Anche in epoca di Restaurazione lo spirito umanitarista della Rivoluzione Francese, associato all'idea di una scienza popolare (che si riallaccia alla tradizione illuminista dell'Enciclopedia) si era ormai sedimentato in molti uomini di scienza. La Rivoluzione aveva influenzato profondamente lo stato dell'intellettuale scientifico, conferendogli sia prestigio politico sia responsabilità amministrativa, innalzandolo nella considerazione sociale della comunità. Inoltre essa aveva spianato il cammino dell'educazione scientifica per un gran numero di componenti della piccola borghesia. Ricordo a questo proposito, proprio perché oggi è più che mai utile ricordarlo, quanto Condorcet, amico di D'Alembert e suo biografo, scrisse nel 1792 all'Assemblea legislativa accompagnando il suo rapporto e progetto di decreto per l'organizzazione dell'istruzione pubblica: "Tutti gli errori di governo e sociali si basano su errori filosofici i quali, a loro volta, derivano da errori nelle scienze naturali". "... In generale qualsiasi autorità di qualsiasi natura in qualunque modo acquisita e da chiunque posseduta diventa un nemico naturale dell'istruzione."


Nella prefazione del libretto del Pozzi lo scopo divulgativo è apertamente dichiarato, oltre ad una elementare illustrazione del procedimento per tentativi ed errori che è proprio del metodo scientifico:

Potrebbe sembrare a prima giunta che un libro che porta per titolo PERCHÈ? abbia ad essere meschina cosa, cosa triviale; ma per poco che vi si rifletta scorgerassi pur bene che il dar ragione dei perché? esige più e più volte profondo intendimento e vasta dottrina; e se l'Uomo potesse dare a tutti i fenomeni che gli si presentano una sensata spiegazione, che ne avesse ben colpito il vero fondo, la vera origine loro, Uomo sarebbe da nominarsi divino, ma per mala sorte più e più volte egli non ha che a restare attonito alla vista di alcuni fenomeni, e se alla spiegazione s’accinge non sa che pronunziare ipotesi, che in fine convincere il denno, che esse non sono più che vani sforzi del suo intelletto; e malgrado suo confessar dee non so. Ma dirassi e per qual motivo dunque scrivere un libro col titolo PERCHÉ? mentre non di rado vani sono gli sforzi nostri per una soddisfacente spiegazione; si risponde non doversi perciò decidere, che non potendosi dare fondata dilucidazione sull'origine di alcuni fenomeni, s'abbia ad abbandonare l'impresa di tentativi all'uopo, poiché non è raro il caso che gli errori stessi invogliano, e spingono alla seria meditazione per lo scoprimento della verità, a cui talvolta si giunge pure; e valida prova ne danno i progressi delle scienze tutte, che fondaronsi più e più volte con non pochi errori. Altronde molti sono pur anco i fenomeni di cui giunti siamo a svelarne la vera origine; ed è quindi che non ardita od inutil cosa giudicherassi se noi tentiamo questa via in parte astrusa ed in parte di non difficile cammino, molto più che esponiamo a sostegno anche i pensamenti in tal materia di uomini illustri; e se il dotto troverà per lui superflua questa fatica, non troveralla punto chi, bisognando d’istruzione, ha ardente vaghezza per ottenerla ed in breve scrittura averla ; ed abbiamo dolce lusinga, che la prima edizione, che già fu ben accolta, ora ritoccata, ampliata ed in più parli dilucidata con questa seconda, riuscirà di più facile intelligenza e di più estesa instruzione.

In questo nuovo clima, che prevedeva anche la vittoria della ragione sulla metafisica e sulla superstizione, si situano le nuove ricerche in tutti i campi della scienza e, in particolare, nell'elettricità e nel magnetismo, che sono oggetto degli ultimi due capitoli, che riporto integralmente. Vi si trovano il parafulmine di Franklin, la coppia bimetallica e la pila di Volta, un cenno all’effetto termoelettrico e all’elettrochimica, le scoperte di Oersted, Arago e Ampére, mentre di quelle di Ohm non c’è ancora cenno. In ogni caso si tratta della testimonianza di come gli studi scientifici sull’elettricità cominciassero a essere conosciuti nel nostro paese anche dai non addetti ai lavori (e Pozzi era un medico). Il lettore vi troverà anche argomenti geologici, che vengono spiegati talvolta ricorrendo al “fluido elettrico”, talvolta a evidenti corbellerie, ma bisogna ricordare che nel 1835 la geologia era scienza neonata e che i lavori fondamentali di James Hutton, William Smith, Georges Cuvier, di qualche decennio precedenti, cominciavano solo allora ad essere conosciuti in Italia. I fondamentali Principles of geology di Charles Lyell, poi, erano stati pubblicati solo cinque anni prima.


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CAPITOLO V
Del fluido elettrico

CENNI PRELIMINARI

Chi non ha provato ad avvicinare un bastoncino di cera lacca stropicciato ai minuzzoli di carta, od alle barbe tagliuzzate di una penna? E chi non ha veduto allora la cera ad attirare questi corpicini? Né solo l'indicata resina ha la proprietà di produrre sì grazioso fenomeno; ma lo produce l'ambra gialla, il vetro, lo zolfo, la seta, ed una non breve serie di altre sostanze. Qualunque sia la causa che da a questi corpi una tale virtù, essa dicesi fluido elettrico.
I corpi anzidetti si mostrano elettrizzati dopo lo sfregamento, perché hanno l’attitudine a trattenere l'elettrico, e per questo diconsi coibenti. Altri, come i metalli, i carboni, i corpi umidi gli permettono libero passaggio, e si chiamano deferenti, o conduttori. Se questi devono conservare l’elettrico, che loro si può comunicare, vogliono essere sostenuti da un coibente, o, come suoi dirsi, devono essere isolati.
Un corpo può mostrarsi elettrizzato o perché abbondi di fluido elettrico, o perché ne scarseggi. Nel primo caso dicesi elettrizzato positivamente, o per eccesso, e nell’altro negativamente, o per difetto.
Ad un piccolo pezzo di vetro supponiamo dì sostituire un ampio disco, od un grande cilindro, che possa facilmente aggirarsi d'intorno ad un asse; e mentre sì aggira effettivamente, mettiamo che sfreghi contro alcuni cuscinetti. È facile l'accorgersi che questo grande apparecchio dee sviluppare moltissimo fluido elettrico. Aggiugniamo di più un lungo e grosso cilindro metallico isolato, il quale presenti alcune punte a quel coibente sfregato; e tutto l'elettrico si andrà di mano in mano raccogliendo sul conduttore metallico, stante la proprietà di cui sono dotate le punte di attrarre il fluido elettrico. Così avremo la macchina elettrica.
Oltre lo sfregamento servono assai bene ad eccitare l'elettrico anche la pressione, lo scaldamento, le chimiche operazioni, il contatto de' corpi di diversa natura, ecc. Due metalli, come, ad esempio, rame e zinco posti a contatto l’uno dell'altro, coll'interposizione p. e. dì un pezzo di panno bagnato con acqua salata, che serve dì conduttore, mettono tosto in movimento l'elettrico, per cui si dicono elettromotori; il primo dà una piccola porzione del proprio elettrico all’altro; e così il primo si elettrizza negativamente , ed il secondo positivamente. E su tale principio che riposa la costruzione della famosissima pila del Volta.

PERCHÉ la causa per la quale alcune sostanze sfregate acquistano la proprietà di attrarre i corpicini leggieri, dicesi elettrico?PERCHÉ è il fluido elettrico che, tendendo ad equilibrarsi, attrae i corpicini leggieri che ne mancano; e tale proprietà venne osservata, prima che in ogni altra sostanza, nell'ambra gialla, o succino che in greco dicesi electron.

PERCHÈ allorquando avviciniamo la nocca del dito ad un corpo elettrizzato n'esce una scintilla?PERCHÈ il fluido elettrico tende di continuo ad equilibrarsi, e perciò dai corpi ove abbonda si slancia su quelli che lo possono diffondere nel suolo, suo serbatojo universale. Le belle scintille si hanno dai corpi molto ricchi di elettrico; ma una scintilluzza si può ottenere anche da un bastoncino di cera lacca sfregato, massimamente accostandogli una laminetta metallica.

PERCHÉ volendo elettrizzare una persona la si fa salire sopra uno sgabello co'piedi di vetro?
PERCHÉ il vetro per la sua coibenza impedisce al fluido elettrico di diffondersi nel suolo. Lo stesso effetto si otterrebbe facendo salire la persona sopra una stiacciata di resina, o sopra uno sgabello co' piedi di zolfo, ecc.

PERCHÉ l'elettricità si accumula nelle nubi?PERCHÉ i vapori che si innalzano dal mare e dalla terra stessa, si innalzano sempre carichi di elettrico.

PERCHÉ in occasione di temporale vedonsi i lampi ed odonsi i tuoni?PERCHÉ slanciandosi un torrente elettrico da una nube che ne abbonda grandemente sopra di un'altra che ne manca, esso elettrico produce strepito e sviluppo di luce.

PERCHÉ i lampi guizzano?PERCHÉ il fluido elettrico di una nube soverchiamente carica si slancia sopra quella che trovasi in difetto, seguendo un sentiero tortuoso, imperocché tortuose sono appunto le masse frapposte di vapore che gli offrono facile passaggio.

PERCHÉ il tuono sentesi qualche tempo dopo di avere veduto il lampo?
PERCHÉ la luce scorre con tanta velocità, che dalle nubi le più lontane giunge a noi in un tempo sì breve da non essere riconoscibile; il suono invece si muove con molto minore celerità, e per conseguenza arriva più tardi.

PERCHÉ il rumore del tuono ci sembra successivo e prolungato?PERCHÉ per quanto lo squarciamento dell'aria, e quindi lo strepito sia istantaneo, se il tratto dell'aria squarciato è lungo, il suono prodotto nelle parti più lontane dee arrivare più tardi agli orecchi , e formare così in queste una successione d'impressioni .

PERCHÉ talvolta cadono i fulmini?
PERCHÉ l’'equilibrio elettrico allora non si stabilisce fra nube e nube, ma fra una nube e la terra. Non sempre poi la nube è elettrizzata positivamente, che talvolta è invece elettrizzata di forte elettricità negativa. Allora il fulmine ascende dalla terra verso il cielo. Alcuni fisici hanno opinato che non cada mai un fulmine dalle nubi, senza che s’innalzi un secondo fulmine di ritorno.

PERCHÉ mettonsi sulle case delle verghe di ferro acuminate che chiamansi parafulmini?
PERCHÉ le punte e soprattutto le metalliche hanno la proprietà di assorbire il fluido elettrico. Così scaricano a poco a poco le nubi, diffondendo nel suolo il loro fluido elettrico per mezzo di un grosso filo metallico che termini in un pozzo, in un fiume, od almeno nel terreno umido. Se la nube fosse in difetto la punta a poco a poco le darebbe 1'elettrico di cui manca.

PERCHÉ sopra i grandi edifizj si mettono molti parafulmini?
PERCHÉ l'attività di un parafulmine non si estende a molta distanza; e però ve ne vogliono molti per difendere un grande edifizio. Essi poi devono tutti comunicare fra loro.

PERCHÉ il fulmine che cade in una casa si slancia sopra certi oggetti, e ne lascia altri immuni?PERCHÉ l'elettrico sceglie sempre per diffondersi i migliori conduttori; e quindi preferisce le sostanze metalliche e i corpi umidi, lasciando a parte gli altri.

PERCHÉ durante la tempesta è egli pericoloso il rifugiarsi sotto un albero?PERCHÉ gli alberi terminando in punta ed essendo abbastanza buoni conduttori fanno l'effetto del parafulmine, e attirano il fluido elettrico. Ma siccome non sono poi conduttori eccellenti, bene spesso il detto fluido si slancia sugl'imprudenti che cercano un rifugio sotto gli alberi.

PERCHÉ essendo immersi nell’acqua nulla abbiamo a temere dal fulmine?
PERCHÉ il fluido elettrico si diffonde ed allarga per tutta la massa acquea.

PERCHÉ non si devono sonar le campane in occasione di tempesta?
PERCHÉ i campanili essendo alti e a punta e con croci a punte, che avrebbero ad essere invece a palle, attirano più facilmente, pel tremito che produce il suono nell'aria, il fulmine con grave pericolo di chi adempie il detto ufficio.

PERCHÉ qualche volta vedonsi i lampi senza udire il colpo del tuono?
PERCHÉ sono lampi riflessi di un forte temporale che ha luogo al di sotto dell’orizzonte.

PERCHÉ la pioggia raddoppia immediatamente dopo un colpo di fulmine?
PERCHÉ l'elettricità, che scaricandosi produce il fulmine, lasciando la nube dove era concentrata, permette alle molecole acquee di riunirsi assieme; e le gocce fatte più grosse cadono per effetto del loro peso.

PERCHÉ il fulmine può fondere una spada nel fodero senza danneggiarla?PERCHÉ l'elettricità s'attacca in preferenza ai metalli, si concentra per così dire in essi, ne fa centro della sua azione; e penetrandoli li riduce in polvere o li volatilizza. In tal guisa accade che un uomo colpito dal fulmine cade a terra per effetto della commozione e dello spavento: subito dopo si rassicura, e sente di non avere alcun male, e si scorge soltanto che il fulmine avea investita la sua borsa , e fuse tutte le monete che v'erano dentro.

PERCHÉ alcune montagne conosciute sotto il nome di Vulcani vomitano fuoco, cenere, bitume?PERCHÉ queste montagne hanno comunicazioni sotterranee colle acque del mare: da queste ne attirano materie saline, bituminose, sostanze metalliche, dei gas di diversa natura, come l'idrogeno, l'ossigeno e l'acido solforico, i quali si combinano colle terre della montagna e producono miniere di zolfo, che poi s' infiammano per ima specie di fermentazione, o piuttosto per l'azione rapida del fluido elettrico che circola anch’esso nel seno della terra. Tutte queste materie infiammandosi producono dell' aria e de’vapori, che cercando di sprigionarsi dalla terra, si scaglino con furore per quelle vie che loro presentano minore resistenza. Le eruzioni adunque de’vulcani si comporranno d’acqua, di zolfo, di minerali, secondo la natura dei fluidi che si combineranno quando s'accendono, perocché la chimica insegna che i fluidi gasosi sono i principj o gli elementi naturali dell’aria, acqua, zolfo e della terra medesima. Basta mescolarli convenientemente per produrre queste diverse composizioni. Tosto che gli ammassi che si erano formati, sono intieramente consunti, l'eruzione cessa; ma nuovi depositi formansi subito, e una nuova combustione apre ancora un libero corso ad altre eruzioni. — La teoria di Patrin (1) però ne è diversa, ma né questa né le altre danno ben soddisfacente spiegazione della formazione de'vulcani. Ciò che è però indubitato si è che il fluido elettrico vi ha una gran parte.

PERCHÉ un gran numero di vulcani si è spento?
PERCHÉ le comunicazioni che avevano col mare sonosi chiuse accidentalmente; o perché il bacino dei mari, per effetto del suo rimovimento progressivo, si è allontanato dai luoghi ove erano queste montagne.

PERCHÉ lungi dal mare e perfino sulle alte montagne trovanti strati di conchiglie o numerosi pesci petrificati , che non si trovano che in mare, o che altresì non esistono più in alcuna parte?PERCHÉ il bacino dei mari che di continuo si rimuove, quantunque assai lentamente, ha coperto i siti da cui è oggi giorno molto lontano, ma che conservano le tracce del suo soggiorno; come altresì nel corso de' secoli ne coprirà altri, la di cui immensa lontananza pare dovesse proteggerli dagli attacchi dell'oceano. Quanto poi ai resti d’animali, di cui sembra perita la razza, si è riconosciuto che alcune specie sonosi talmente deteriorate nel corso de’ secoli che sembrano come distrutte, tanto ne è travisato il tipo e 1’original forma. Cosi furono trovate entro terra alcune parti d’un animale assai più grosso dell'elefante, e in luoghi dove gli elefanti non vanno mai, come in Siberia. I naturalisti hanno dato a questo animale il nome di Mammut.

PERCHÉ qualche volta la terra trema?
PERCHÉ si sa che nell'interno' del globo circolano continuamente fluidi gasosi di diversa natura, provenienti dalla decomposizione di materie saline o bituminose, depositate dall'acque dell'oceano nelle viscere della terra a maggiore o minore profondità. Questi fluidi mettonsi in moto per l'azione del fluido elettrico, che fa riguardo alla terra la stessa voce che il fluido nerveo negli animali: questo gas cercando di mettersi in equilibrio, di spandersi uniformemente in tutte le parti del globo, produce queste scosse spesso dannose, che si propagano con rapidità spaventevole. In una parola il globo terrestre soffre, come l’uman corpo, per effetto di una costituzione fisica degli incomodi, de' moti convulsivi, delle malattie, mi sia permesso di esprimermi così, le cui cause dipendono dalla disugual ripartizione de' fluidi che circolano nell'uno e nell'altro corpo. Da altra parte la natura ha delle maniere d'agire, de' processi infinitamente vari, di cui certamente ci è permesso di concepire l'idea colle esperienze de' nostri laboratorj, ma che non dobbiamo pretendere di racchiudere e ristingere entro limiti fissi e precisi.


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CAPITOLO VI
Del fluido magnetico

CENNI PRELIMINARI


Se siamo stati brevi rispetto all'elettrico lo saremo più ancora riguardo al magnetico. A questo proposito ci limiteremo ad alcuni pochi cenni fondamentalissimi.
Vi sono alcune miniere di ferro, le quali manifestano una marcatissima attrazione per questo metallo: esse si dicono calamite o magneti. La causa per la quale avvengono i fenomeni presentati dalle calamite si dice fluìdo magnetico.
Ciascuna calamita ha d'ordinario due punti, ove la detta attrazione si fa sentire più fortemente. Essi si chiamano poli.
Il ferro in contatto colla calamita od in vicinanza alla stessa acquista esso pure la virtù magnetica; ma questa non è che accidentale: cessa tosto che la calamita si allontana.
L'acciajo acquista più difficilmente le proprietà magnetiche, ma poi le conserva. Si calamita l’acciajo sfregandolo contro uno de' poli di una calamita, non che con altri procedimenti, che per altro hanno tutti questo per fondamento. Cosi si costruiscono delle calamite artificiali in forma di barra, di semicerchio, di ferro di cavallo, di ago. Una buona calamita, in causa della sua forza attraente suol sostenere de 'pesi di gran lunga maggiori del suo proprio. L'attrazione che la stessa esercita agisce a distanze notabili, e si fa sentire perfino attraverso ai corpi. La forza di una calamita cresce coll'esercizio fino ad un certo limite.
Fra le proprietà della calamita sono rimarchevolissime quelle che si manifestano quando due di esse si presentano reciprocamente i poli rispettivi: talvolta si attraggono, tal altra si respingono. I poli che si attraggono diconsi poli amici, quelli che si respingono poli nemici.
Ma non meno notabile si è la direzione secondo la quale si dispone una calamita, che possa moversi liberamente, un polo di essa si rivolge verso un polo del mondo, e l‘altro verso il secondo. Quello che guarda il nord dicesi appunto polo nord, e quello che risguarda il sud dicesi polo sud (sebbene alcuni usino un modo affatto contrario di denominarli). I poli amici sono quelli che portano nome diverso, quelli dello stesso nome sono i nemici. La direzione magnetica dell'ago calamitato ha dato origine alla bussola, strumento importantissimo pei naviganti.
È da notarsi poi risultare dalle ingegnose e ben concludenti esperienze di Oersted, Ampère, Arago, Nobili (2) ed altri fisici distinti, che il fluido magnetico non è altramente che l'elettrico in diverso stato d'accumulazione, tensione, direzione e corrente.

- FINE -

(1) Del francese Eugène Melchior Louis Patrin (1742-1815) proprio nel 1836 era stata pubblicata a Livorno l’edizione italiana della Storia naturale dei minerali (1801), risultato di una instancabile opera di viaggiatore e collezionista. Nell’introduzione alla ponderosa opera composta da cinque volumi illustrati, il Patrin aveva illustrato le teorie di Buffon sull’origine della Terra, staccatasi dalla materia incandescente del Sole per l'urto di una cometa e sulla cui superficie, raffreddatasi in epoche successive, la vita è sorta per effetto delle sole forze naturali.

(2) Il lucchese Leopoldo Nobili (1784 – 1835) nel 1825 aveva inventato il galvanometro astatico, strumento fondamentale nella storia dell'elettromagnetismo. L'anno successivo realizzò la pila termoelettrica con Melloni. Nel 1832 venne nominato professore di fisica presso il Regio Museo di Fisica e Storia Naturale di Firenze, dove, in collaborazione con Vincenzo Antinori (direttore del Museo dal 1829), realizzò importanti esperimenti sull'induzione elettromagnetica scoperta da Faraday.