mercoledì 29 febbraio 2012

Il treno da nessun dove

La rinuncia al verbo in un testo narrativo è una contrainte estrema, anche se tecnicamente non così complicata come il lipogramma, il cui esempio più noto è il romanzo La disparition di Georges Perec, scritto senza usare la lettera E. Ci ha provato il francese Michel Thaler (pseudonimo di Michel Dansel) con Le Train de nulle part, edito nel 2004 per i tipi di Adcan Edition, 233 pagine senza un verbo che non sia un participio. Il francese con il quale è scritto non è quello letterario, al contrario abbonda di modi gergali, neologismi e giochi di parole intraducibili, fatto che ha ostacolato la diffusione al di fuori della Francia. Il testo, stilato con humour acido e scorbutico, riesce, nonostante il vincolo letterario autoimposto, a essere interessante, e non è affatto vero, come si è scritto, che manca d’azione: essa c’è e si svolge nella mente dell’io narrante, in un continuo presente che però s’affolla di ricordi e considerazioni.

L’autore, un laureato in letteratura francese ormai ben oltre la sessantina, si dichiara “nemico del verbo” e non considera affatto il suo sforzo letterario un esercizio ginnico per battere qualche record o invocare una qualche primogenitura. Al contrario, per Thaler il verbo è “un invasore, dittatore e usurpatore della nostra letteratura”. Con l’uscita del libro, egli volle celebrare alla Sorbona il “funerale del verbo”, durante una presentazione-happening con oltre trecento invitati e con figuranti vestiti a lutto in marcia dietro un carro funebre tirato da un cavallo. La polizia interruppe il corteo per “minaccia all’ordine pubblico”.

Ancor più esplicita la prefazione, dedicata “A tutti i feroci nemici del verbo, adepti incondizionati del presente assoluto. A tutti i partigiani della decolonizzazione dello scritto e della messa a morte o, in modo più accettabile, della messa in silenzio e dell’esclusione del verbo. (…) A tutti i seguaci di questa nuova area: gente marginale alla ricerca di un reale rinnovamento della scrittura, acrobati della modernità, trapezisti dell’immagine abbandonata e del sentimento poetico assoluto (…).

L’incipit in lingua originale del primo capitolo è stato pubblicato sul n. 15 (2005) di Tèchne, la bella e curiosa rivista di ”bizzarrie letterarie” curata da Paolo Albani. Ho provato a tradurlo senza essere un esperto, con lo spirito giocoso di chi si dedica alla soluzione di un enigma (oppure, ma parlo per me e pochi altri, alla risoluzione di un quiz matematico). Il risultato è sotto i vostri occhi. Da parte mia, invoco la benevolenza del lettore e chiamo come testimone a difesa Samuel Taylor Coleridge: “Ho tre validi campioni per difendermi dagli attacchi della Critica: la Novità, la Difficoltà e l’Utilità del Lavoro”.




Che pacchia! Un posto libero, o quasi, in questo scompartimento. Una sosta provvisoria, perché no! Allora, il mio nuovo indirizzo su questo treno da nessun dove: vettura 12, 3° scompartimento nel senso di marcia. Ancora una volta, perché no?
– Buongiorno, Signore e Signori! Un pezzo di viaggio con voi! O forse no! Per tutto l’intero percorso, almeno il mio!
A queste parole di circostanza, in piena armonia con la situazione, una malmostosa profumata sul volgare, a cavalcioni sul suo asino da monta di servizio, l’occhio migratore, le labbra tagliate per altri itinerari, le mani grassottelle dalle puzze d’acqua dei piatti, il sorriso scatologico: insomma, tutto un programma!
E con la sua voce da pozzo nero in azione:
– Purtroppo, niente posto là in alto, neanche vicino alla mia valigia, per i vostri bagagli!
– Per i miei bagagli? Ma per quali bagagli?
E lei, il ghigno immediato all’acqua di cazzata, le guance a forma di trippe di tacchino già sgualcite per raddoppio di pieghe, la mano destra sgarbatamente sotto il mento:
– Sì! Eh! Per i vostri bagagli! He!
– Che idea, Signora! I miei bagagli? Tutto nella mia testa e nel mio cuore, e il resto al diavolo!
Allora, l’idiota come una sotto-sciampista imbellettata in pieno nitrito:
– Al diavolo, he! Al diavolo! I vostri bagagli al diavolo, eh! Impossibile dei bagagli al diavolo, eh! Ancora una cosa da pazzi, eh!
Che spettacolo deprimente, questa creatura nitrente!
All’improvviso, nella mia testa, come un gusto di rigurgito gastrico! Ma troppo tardi per un altruista ideale come me!
D’altra parte, da parte mia, come un cretino, un irresistibile bisogno di giustificazione davanti a questa baldracca volgare fino all’esaurimento! Perché, tra di noi, una foca di questo genere in un letto, che scenetta triste! Quanto al mio bisogno di giustificazione: normale! Come sempre con gli imbecilli!
– Illusorio, Signora, il culto del bagaglio per un viaggiatore terrestre!
E lei, ancor più gelatinosamente beffarda, ma stavolta non in modo cavallino! Piuttosto, d’altronde, come una cinghiala in calore, all’indirizzo del suo torello in piena poppata! Lui, in effetti, una tetta bluastra a forma di mezz’anguria ammaccata sul naso.
– Ancora uno fuori di testa, eh! Buono per il manicomio, eh! Eh! Mio coniglione! Eh!
Quanto al suo somaro, il membro virile aggressivo, un grugno da bastardo neanche sgrossato dalla pialla! E ancor meno dalla sgorbia! Con dei foruncoli verdastri alla radice del collo bovino, con le ciglia cispose, con gli occhi d’un marrone merdoso, con i modi da falso pappone di sordidi quartieri portuali, con le basette inondate di forfora, con la canappia generosamente moccolosa, proprio un bel campione d’un paese in marcia!
Anche lui, in pieno nitrito, ma in modo rauco. Che corale! Sfigato! Allora, sollevata la capoccia, con della ricotta ancora tra i denti, in un grugnito quasi provocatorio a mo’ di risposta alla sua fessa:
– D’accordo, mia gattona golosa! Mica a posto questo tipo! O un prete o uno strampalato!

Di fianco a questa coppia, una paffutella in ogni dove, grinzosa fino alla screpolatura come un vecchio comodino dalla lacca esasperata.
Sulle sue ginocchia un marmocchio di rara bruttura. In effetti, un sacco d’eczema. Forse il frutto di un’inculata collettiva con un cane rognoso di passaggio! Che destino, comunque!
E proprio di lato a questa bustina-sorpresa, genitrice-marmocchio, un ciccione pieno di zuppa violacea, imbottito di salumi misti con, a mo’ di testimonianza probante, le sue flatulenze profumate al salsicciotto di gran volume. Proprio il morfotipo del sindacalista d’assalto, mangia-padroni, testa d’asino, nostalgico a tempo pieno con una postilla per le azioni sanguinarie! Certamente un nemico della pinza per zollette e, a fortiori, dell’ostia consacrata! A colpo sicuro un cece nella capoccia, e della miglior qualità!
Come tutti gli apparatchik del politicame, da parte sua un sordido bisogno di marcatura del proprio territorio ideologico! Allora, agli altri viaggiatori dello scompartimento, questa faccia non proprio sangue di bue, ma peggio:
– Mica molto democratiche le vostre considerazioni! Normale! Dopo il licenziamento della ghigliottina! Non abbastanza teste cadute nei panieri del popolo! Compagni, ai vostri arnesi! Ancora molto lavoro di fronte a noi!
Questo adepto del Terrore, un idiota sanguinario e odioso!

Di fronte a questo elettore coagulato nel suo buon diritto, un esemplare deforme. Una testa da incubo questo spiralato dappertutto, questo bitorzoluto mal assemblato dalla vita. Una descrizione lapidaria per un migliore approccio al personaggio: sulla cinquantina bavosa, il busto impalato, le mani grossolane disarticolate alle giunture, e tutto il resto dello stessa pasta. In breve, una specie di mammifero peloso in forma umana! Un discendente della famiglia degli spaventosi primati dei tempi antichi! Un omologo a stento superiore della fauna delle selve moleste, tormentate e più che incerte.
Il suo grugno: tutto un programma da solo! Prima di tutto, il colore della pelle color pane tostato, barile di quercia, armagnac invecchiato.
Dunque, l’abbronzatura naturale degli agricoltori, dei coltivatori di prima dell’esodo rurale, dal collo striato, rugoso, erpicato. Dei vecchi delle nostre campagne, uomini e donne in pieno tiro ai gioghi dell’ignoranza, gente di mietiture, gente di vendemmie, nei campi o nella vigna con, come solo punto di riferimento, l’eco delle ore battute in volata sulla tastiera di un campanile di un villaggio lontano.
Sì, l’abbronzatura della gente di campagna ancora numerosa fin verso gli anni ’50: quella con le fittavole, alla fine del pomeriggio, con il secchio tra le gambe; quella con il fucile da caccia appeso all’attaccapanni di fianco a un graticcio chiazzato dal fango e striato dalla sterpaglia; quella del camino con gli stessi e impregnanti odori di fuliggine, e questo di padre in figlio; quella dei vini dissetanti e del prosciutto appeso a una trave calcinata, quella con i vestiti a righe per la messa e le grandi occasioni della vita; quella con gli abiti di cotone robusto, smorti e grossolanamente floreali, quella dalle bevute memorabili in occasione delle feste di paese; quella, tra due solchi, dietro il culo dell’erpice, dell’aratro o del rullo, con il pacchetto di trinciato comune nella tasca ruvida e spessa di una tuta comperata alla cooperativa; quella della cotenna di lardo, talvolta insaporita da una rondella di cipolla, tra due fette di pane di segale, con la pinta di vinaccio genuino, e non stavolta di vino dissetante diventato oggi, in certe regioni, assai apprezzato.

Niente in comune con i coltivatori agricoli dei tempi nuovi, il culo sul loro trattore, il tubetto di antidepressivo nella saccoccia, tutti più o meno candidati all’infarto.
Non abbastanza lacrime nei nostri cuori per questi contadini morti e sepolti con la complicità e la benedizione dei governi e dei loro lacchè, più uomini politici che uomini di Stato e condannabili, per questo, all’inumazione gratuita, ma da vivi, nei solchi della Repubblica!
Ma lui, il deforme, ancora un’altra cosa! Un patto tra i vecchi della vecchia guardia dei contadini, i taglialegna di sempre e le creature più irsute d’un Medioevo profondo.
I suoi capelli, piuttosto la sua zazzera, del crine, della coda di bovide! In breve, una piantagione cespugliosa in fuga dal fronte, in rotta disordinata fino a dietro alla nuca. E là, la ramazza integrale senza il minimo accenno di scalatura. Quanto al colore, l’indescrivibile! Delle ciocche di cenere, come immerse nella ricotta giallastra e rancida! Questo perfetto bruxomane dalle spine di riccio sulle guance, un autentico fossile vivente dei tempi passati: Ecco un campione di prima scelta per ecologisti mondani!
I suoi occhi: quelli di uno sconvolto, di un allucinato, di un posseduto, di uno stupito per lo spettacolo del mondo, di una bestia feroce isteroide, destinata, in altri tempi, al macellaio, ma anche di un rabbioso, di uno capace di tutto, tranne che del meglio, o in tal caso d’un meglio pesantemente masochistizzato! In breve: delle biglie alate da corvo, globulose come delle palle da biliardo in pieno rotolamento dall’alto in basso, di lungo in largo. Un paragone possibile, ugualmente, con delle biglie d’acciaio in giravolte sataniche.
Persona di spavento, questo perfetto elemento, forse originario, in tempi assai remoti, delle contrade più isolate di una Bulgaria incistata nelle antiche province romane della Tracia e della Mesia.


domenica 26 febbraio 2012

Nella spirale di Eulero


Viviamo in un piccolo frammento rettilineo, disteso tra due spirali infinite,
che Cloto impone a ciascuno e compila e giorno e notte fila
sulla sua conocchia, da quando iniziarono i giorni.
Noi non sapremo mai il prima e il dopo
(è già difficile indovinare il durante)
e neppure conosciamo,
il parametro
t
con il quale
ella avvolge il filo,
con curvatura che cresce
secondo la lunghezza, sempre più veloce.
La soluzione è nel piano complesso (non tutto è reale nella vita):
forse la capiremo quando Atropo darà il colpo di forbici che a tutti compete.


Ballata: Al globo terrestre


William Schwenck Gilbert (1836 – 1911) è stato uno scrittore e librettista londinese, famoso per la sua collaborazione con il compositore Arthur Sullivan nella scrittura di operette e commedie brillanti, tuttora assai popolari nel Regno Unito. Nella sua vasta produzione troviamo anche questa poesia, che mi è tornata in mente alla notizia di pianeti che vagano solitari nella nostra galassia, per domini di spazio senza vie, indifferenti ai destini umani.

Ballad: To the Terrestrial Globe

Roll on, thou ball, roll on!
Through pathless realms of Space
Roll on!
What though I'm in a sorry case?
What though I cannot meet my bills?
What though I suffer toothache's ills?
What though I swallow countless pills?
Never YOU mind!

Roll on!
Roll on, thou ball, roll on!

Through seas of inky air
Roll on!
It's true I've got no shirts to wear;
It's true my butcher's bill is due;
It's true my prospects all look blue –
But don't let that unsettle you!
Never YOU mind!
Roll on!

Ballata: Al Globo Terrestre

Rotola, palla, rotola!
Attraverso domini di Spazio senza vie
Rotola!
Che importa se sono nella tristezza?
Che importa se non ce la faccio con le spese?
Che importa se ho il mal di denti?
Che importa se mando giù pastiglie a non finire?
Non farci caso!

Rotola!
Rotola, palla, rotola!

Attraverso mari d’aria neri come l’inchiostro
Rotola!
È vero che non ho camicie da mettere
È vero che devo pagare il conto al macellaio
È vero che le mie prospettive sono tristi
Ma non fare che ciò ti turbi!
Non farci caso!
Rotola!

venerdì 24 febbraio 2012

I matematici-poeti dell’epoca vittoriana

C’è qualcosa che mi attira verso gli uomini di scienza dell’età vittoriana. Intellettuali completi, a loro agio con i numeri e con le lettere, specialisti in più discipline, riuniti in associazioni prestigiose di tradizione secolare, eppure pronti a intonare cori conviviali alla sera davanti a una birra. Nei decenni centrali dell’Ottocento, il Regno Unito visse una fase di grande fermento scientifico, un’epoca in cui, alle conquiste territoriali ed economiche accompagnate dalle note di Rule Britannia!, si associò una rilevante posizione in pressoché tutti i campi della ricerca.

La poesia era considerata una delle più alte espressioni artistiche e godeva di una vasta popolarità, almeno nei ceti che avevano accesso all’istruzione. Molti matematici e fisici erano poeti dilettanti, ma il loro diletto si fondava su solide basi culturali (e persino su una vera e propria erudizione) e si manifestò con opere di buon livello. Era infatti tra loro condiviso il pensiero che la ricerca matematica richiede un alto grado di immaginazione, affine all’istinto creativo del poeta.

Il più noto dei matematici-poeti dell’epoca fu senza dubbio James Clerk Maxwell (1831-1879), uno dei più grandi fisici dell’Ottocento, al quale tempo fa ho dedicato una serie di articoli (1, 2 e 3). La più celebre poesia di Maxwell, scritta nell’inglese degli scozzesi, è senza dubbio questa parodia di un’opera del bardo scozzese Robert Burns, che il fisico dedicò ai problemi con il gentil sesso di un collega e che cantava accompagnandosi con la chitarra:

Gin a body meet a body
Flyin' thro the air,
Gin a body hit a body,
Will it fly? And where?
Ilka impact has its measure
Ne'er a' ane hae I
Yet a' the lads they measure me,
Or, at least, they try.

Gin a body meet a body
Altogether free,
How they travel afterwards
We do not always see.
Ilka problem has its method
By analytics high;
For me, I ken na ane o' them,
But what the waur am I?

Se un corpo incontra un corpo
volando in mezzo all’aria,
se un corpo urta un corpo
Volerà? E dove?
Ogni impatto ha la sua misura,
io non ne ho mai avuto uno,
eppure le donne loro mi misurano,
o, almeno, ci provano.

Se un corpo incontra un corpo,
tutti insieme in libertà,
come viaggiano in seguito
non sempre lo si vedrà.
Ogni problema ha il suo metodo
secondo le analitiche altezze;
io, io non ne conosco alcuno,
ma come sono sfortunato!


Augustus De Morgan (1806-1871), uno dei fondatori della logica matematica, possedeva un’erudizione enciclopedica, ben al di là del suo campo d’attività professionale: basti dire che fu il compilatore di alcune delle voci della più diffusa enciclopedia mitologica dei suoi tempi. De Morgan si cimentò anch’egli con la parodia, scrivendo ad esempio questa quartina sulle pulci da Jonathan Swift, che, se vogliamo, è un’anticipazione delle geometria frattale:

Great fleas have little fleas upon their backs to bite 'em,
And little fleas have lesser fleas, and so ad infinitum.
And the great fleas themselves, in turn, have greater fleas to go on;
While these again have greater still, and greater still, and so on.

Le grandi pulci portano piccole pulci che le mordono con appetito,
e le pulci piccole hanno pulci più piccole, e così all’infinito.
E le stesse grandi pulci, a loro volta, hanno pulci più grandi per campare;
mentre queste ne hanno di ancor più grandi, e più grandi, e via andare.

Il matematico londinese scrisse anche il gustoso A Budget of Paradoxes, pubblicato postumo dalla moglie nel 1872, una raccolta divertente di considerazioni, aneddoti, recensioni, citazioni sulla matematica, la scienza, la religione, compresa un’analisi dei rapporti tra scrittori ed editori, una pagina con centinaia di anagrammi del suo cognome (come Great gun! Do us a sum!), una serie di vivaci descrizioni del mondo scientifico inglese a lui contemporaneo. De Morgan si dimostra scrittore di talento, esponendo le sue conoscenze con la vivacità di un moderno divulgatore e, nel solco della buona tradizione anglosassone, con uno humour che non esita a far ricorso all’aneddoto curioso, al gioco di parole, alla poesia umoristica o nonsensical.


La passione poetica non risparmiò neppure William Rowan Hamilton (1805-1865), il padre dei quaternioni, il quale, bambino prodigio, secondo i biografi conosceva una decine di lingue tra moderne e antiche (ebraico, arabo e persiano compresi) e a cinque anni, sotto la guida dello zio prete, recitava le opere di Dryden, Collins, Milton e Omero. All’età di ventidue anni, poco prima di diventare assistente dell’osservatorio astronomico di Dunsink, presso Dublino, Hamilton intraprese un viaggio attraverso l’Inghilterra e la Scozia, durante il quale fu ospite per una notte del poeta William Wordsworth nella casa di costui nel Cumberland. Il poeta ricambiò la visita quando Hamilton aveva preso posto all’osservatorio e, a partire da quell’occasione, ricevette dall’uomo di scienza diverse sue poesie. Poco tempo dopo inviò una lettera, che si è conservata, nella quale, con tatto ma senza tante perifrasi, invitava Hamilton a dedicarsi alla scienza o, piuttosto, alla prosa: l’immaginazione poetica non gli mancava, ma la tecnica era carente e non si poteva improvvisare. Questo è l’incipit della fine dei sogni poetici di Hamilton:

"You send me showers of verses which I receive with much pleasure, as do we all: yet have we fears that this employment may seduce you from the path of science which you seem destined to tread with so much honor to yourself and profit to others”. Again and again I must repeat that the composition of verse is infinitely more of an art than men are prepared to believe, and absolute success in it depends upon innumerable minutiae which it grieves me you should stoop to acquire a knowledge of.”

“Mi avete inviato valanghe di versi, che ho ricevuto con molto piacere, come è usanza fare: tuttavia temiamo che questo impegno possa allontanarvi dal cammino della scienza che sembrate destinato a percorrere con molto onore per voi stesso e profitto per gli altri. Ancora una volta sono costretto a ripetere che la composizione di un verso è infinitamente più un’arte di quanto gli uomini siano preparati a credere, e il successo assoluto in essa dipende da innumerevoli minuzie delle quali mi addolora [dirvi] voi dovreste chinarvi [sui libri] per acquisire una conoscenza”.


Matematico, poliglotta, poeta e traduttore fu James Joseph Sylvester (1814-1897), che diede contributi fondamentali alla teoria delle matrici, a quella degli invarianti, alla teoria dei numeri, a quella della divisibilità e al calcolo combinatorio. Molti dei suoi lavori matematici contengono citazioni prese dalla poesia classica. Nel 1870 pubblicò un libro intitolato The Laws of Verse, che contiene molte sue traduzioni di poeti greci e latini, nel quale tentò di codificare le regole di metrica inglese per la poesia.

Quando divenne professore saviliano di Geometria a Oxford, Sylvester tenne nel 1885 la sua lettura inaugurale, che verteva sugli invarianti differenziali, che egli definiva reciprocanti. Un reciprocante elementare è , perché se , allora . Egli considerava questa come la forma “larva”, e da essa sviluppò la “crisalide”


E la “imago”


Si vede che l’espressione “crisalide” è asimmetrica: il posto del nono termine è vacante. Ciò mosse l’immaginazione poetica di Sylvester, che introdusse nella sua prolusione il seguente sonetto:

To a Missing Member of a Family Group of Terms in an Algebraical Formula

Lone and discarded one ! divorced by fate,
Far from thy wished-for fellows—whither art flown?
Where lingerest thou in thy bereaved estate,
Like some lost star, or buried meteor stone?

Thou minds't me much of that presumptuous one,
Who loth, aught less than greatest, to be great.
From Heaven's immensity fell headlong down
To live forlorn, self-centred, desolate:

Or who, new Heraklid, hard exile bore,
Now buoyed by hope, now stretched on rack of fear,
Till throned Astraea, wafting to his ear

Words of dim portent through the Atlantic roar,
Bade him " the sanctuary of the Muse revere
And strew with flame the dust of Isis' shore."

Al membro mancante di un gruppo famigliare di termini in una formula algebrica

Solitario, messo da parte, separato dal destino,
lontano dai compagni bramati - dove sei volato?
Dove indugiasti nella tua orbata condizione,
come una stella perduta, o un meteorite sepolto?

Tu mi porti alla mente assai quel presuntuoso,
che superbo, quasi il più grande, per essere grande,
dall’immensità del Cielo precipitò a testa in giù
per vivere misero, in sé racchiuso, desolato,

o colui che, novello Eraclide, patì un duro esilio,
ora animato dalla speranza, ora torturato dalla paura,
finché la regale Astrea, gli sussurrò all'orecchio

parole di vago portento nel mugghio dell’Atlantico,
gli comandò “il santuario della Musa riverisci
e cospargi di fiamme la polvere della costa di Iside”.

Dove il riferimento della seconda quartina è a Lucifero e alla sua caduta, mentre quello della prima terzina sembra a un discendente di Ercole (un Eraclide), forse Ippote, che fu esiliato per dieci anni dopo aver ucciso l’indovino che aveva predetto la distruzione dell'esercito degli Eraclidi se fossero tornati nel Peloponneso. La mia scarsa cultura classica non giunge a ritrovare il racconto mitologico d’origine (confido in qualche lettore maggiormente ferrato di me nella materia).


L’ultimo poeta di questa rassegna è il matematico e filosofo William Kingdon Clifford (1845-1879), morto giovane di tubercolosi, oggi ricordato soprattutto per la sua eponima algebra di Clifford, un'algebra associativa che generalizza i numeri complessi e i quaternioni di Hamilton. La sua teoria lo condusse, in seguito, agli ottonioni (o biquaternioni), oggetti matematici che impiegò per studiare il movimento negli spazi non-euclidei e sulle superfici ora conosciute come spazi di Klein-Clifford. La sua teoria dei grafi fu anticipatoria di molte acquisizioni successive. Inoltre sviluppò profondo interesse anche per la topologia, l'algebra universale e le funzioni ellittiche.

Uomo di singolare acutezza e originalità, Clifford era dotato di uno stile lucido, di profondità e immaginazione poetica e di un grande calore umano. Razionalista e osteggiato dalle gerarchie ecclesiastiche, sosteneva che fosse immorale credere alle cose per cui non vi è una prova: nel suo saggio The Ethics of Belief (1879) compare il famoso principio: "è sbagliato sempre, comunque e per chiunque, credere a qualsiasi cosa basandosi su prove insufficienti." Scrisse una fiaba per bambini, The Little People, e diverse poesie, con stile leggero e personale. Ecco ad esempio i bellissimi versi che inviò a George Eliot come accompagnamento a una copia della sua fiaba:

Baby drew a little house,
Drew it all askew;
Mother saw the crooked door
And the window too.

Mother heart, whose wide embrace
Holds the hearts of men,
Grows with all our growing hopes,
Gives them birth again,

Listen to this baby-talk:
'Tisn't wise or clear;
But what baby-sense it has
Is for you to hear.

Il piccolo disegnò una casetta,
la disegnò tutta storta;
la mamma vide la porta sbilenca
e pure la finestra.

Madre natura, il cui largo abbraccio
cinge i cuori degli uomini,
cresce con tutte le nostre crescenti speranze,
dà loro nascita di nuovo.

Ascoltate questo discorso di bimbo:
non è saggio né chiaro;
ma per il senso bambino che possiede
lo dovete ascoltare.

In un discorso dal titolo Alcune delle condizioni dello sviluppo mentale, che pronunciò alla Royal Institution nel 1868, quando aveva 23 anni, egli affrontò il tema del rapporto tra scienza e arte con queste parole, che mi sembra possano essere descrittive del clima culturale di un’epoca:

"Men of science have to deal with extremely abstract and general conceptions. By constant use and familiarity, these, and the relations between them, become just as real and external as the ordinary objects of experience, and the perception of new relations among them is so rapid, the correspondence of the mind to external circumstances so great, that a real scientific sense is developed, by which things are perceived as immediately and truly as I see you now. Poets and painters and musicians also are so accustomed to put outside of them the idea of beauty, that it becomes a real external existence, a thing which they see with spiritual eyes and then describe to you, but by no means create, any more than we seem to create the ideas of table and forms and light, which we put together long ago. There is no scientific discoverer, no poet, no painter, no musician, who will not tell you that he found ready made his discovery or poem or picture - that it came to him from outside, and that he did not consciously create it from within”.

“Gli uomini di scienza hanno a che fare con concetti estremamente astratti e generali. Con il costante e uso e la familiarità, questi, e le relazioni tra di essi, diventano reali ed esterni proprio come i comuni oggetti dell’esperienza, e la percezione di nuove relazioni tra di essi è così rapida, la corrispondenza della mente alle circostanze esterne così grande, che si sviluppa un senso scientifico reale, con il quale le cose sono percepite così immediatamente e veramente così come io vi vedo ora. Anche i poeti e i pittori e i musicisti sono così abituati a proiettare fuori di sé l’idea di bellezza, che diventa una reale esistenza esterna, una cosa che essi vedono con occhi spirituali e in seguito vi descrivono, ma che assolutamente non creano, non più di quando ci sembra di creare le idee di tavolo, di forme e di luce, che mettemmo insieme tanto tempo fa. Non esiste scopritore scientifico, poeta, pittore o musicista che non vi dirà di aver trovato già fatta la sua scoperta, la sua poesia o la sua pittura, che essa giunse a lui dall’esterno, e che non la creò consciamente dal proprio interno”.

martedì 21 febbraio 2012

Quattro storie bibliche


E Aaron generò Baruc che generò Caleb che generò David che generò Eliasaf che generò Fanuel che generò Gabael che generò Hammelec che generò Iabne che generò Jonas che generò Karnain che generò Lemuel che generò Mordechai che generò Nabot che generò Onan, e la storia finì lì.


E il popolo vagò nel deserto per quarant’anni e giunse sulla cima di un alto monte dal quale poteva vedere la Terra Promessa. Ma il tuono del Signore rombò parole terribili per i figli di Israele: “Ancora due anni di sofferenze: la Terra promessa richiede quarantadue anni di contributi”.


Nella casa del Re ballò Rubah davanti a Johan e si tolse i sette veli fino a rimanere nuda. E ciò piacque al Re. Giunsero allora i soldati di Roma e chiesero al Re chi fosse quella donna. E il Re rispose che la giovane era la nipote del Faraone d’Egitto.


E il Signore mandò loro la siccità e i loro pozzi si seccarono. Mandò poi i pidocchi, che tormentarono i Figli d’Egitto. Mandò poi la peste, che decimò il popolo. Venne poi la carestia, che uccise gran parte di quella gente sventurata. Non contento, l’Onnipotente chiamò a sé i rappresentanti del popolo e disse “Adesso piacerà al Signore la riforma della Legge, all’articolo 18”.

lunedì 20 febbraio 2012

L’Archimede di Campanile

Il grande umorista Achille Campanile (1899-1977) fu assai prolifico di scritti, che troviamo dispersi qua e là nella stampa italiana. Nel numero 11 (marzo-aprile 2003) de Il Caffè illustrato, la bella rivista diretta da Walter Pedullà, troviamo alcune riflessioni biografiche che il nostro pubblicò su Il Tempo di Roma, tra le quali questa, su Archimede:

Che strano tipo era Archimede! Volle che sulla sua tomba fosse messo, invece d’un epigrafe, il disegno d’una sfera, col cilindro circoscritto e il rapporto 2/3: la sua grande scoperta, la determinazione del volume e dell’area d’una sfera.

È commovente quest’attaccamento a un teorema di geometria. Rivela come ci possa essere poesia anche nelle aride formule e nei calcoli.

Archimede era attaccato a questa sua scoperta. Ci ripensava ogni tanto. Essa s’identificava con la sua giovinezza. Le opere migliori, anche se fatte in tarda età, rappresentano la giovinezza per l’Autore. E in quella sfera circoscritta da un cilindro, Archimede vedeva i suoi anni migliori, quelli delle dolce illusioni, delle care speranze, dei palpiti ardenti: la felicità. E la volle incisa sula sua tomba.

Archimede era uno di quegli uomini che nascono col destino della popolarità. Popolari, si può dire, dalla nascita. Senza volerlo, tutto quello che fanno serve a renderli più popolari. Basti dire che scappò nudo dal bagno per le vie di Siracusa, non per far parlare di sé, ma unicamente perché aveva risolto il problema del peso dei solidi nei liquidi. Quella fuga in costume adamitico per le vie cittadine giovò alla sua popolarità più che la determinazione del volume d’una sfera, che gli era costata tanti anni di studio. E ancora se ne parla. Come della mela di Newton che è più celebre della sua scoperta.

Vero è che, da quella volta, Archimede, per alcune vecchie e degne signore di Siracusa, fu soltanto «quello sporcaccione».

domenica 19 febbraio 2012

La scienza Britannica nel 1865 secondo il Punch


Questa gustosa vignetta, che apparve sul numero del 23 settembre 1865 della rivista londinese Punch, prendeva simpaticamente in giro il convegno della British Association for the Advancement of Science, che aveva appena concluso i suoi lavori a Birmingham. I partecipanti e i relatori costituirono come un who's who dei più alti esponenti delle scienze britanniche alla metà del XIX secolo (nei campi della geologia, fisica, fisiologia, chimica, matematica, statistica ed economia). Nei lavori si parlò di tutto, dall’allevamento delle ostriche all’esplorazione delle caverne inglesi, dalla revisione della nomenclatura zoologica all’osservazione delle meteore, dalle ascensioni con l’aerostato per studiare l’atmosfera alla determinazione di un’unità di misura per la resistenza elettrica. 

L’illustrazione è stata pubblicata nei giorni scorsi dall’amico John F. Ptak, libraio scientifico americano e grande divulgatore, sul suo interessantissimo blog Ptak Science Books, ricca fonte di notizie, aneddoti e illustrazioni sulla storia della scienza, della tecnologia e sui loro dintorni sociali.

Tra le caricature della vignetta, in alto a sinistra si riconoscono Thomas Huxley, il “mastino di Darwin”, e Richard Owen, rivale del padre dell’evoluzionismo, intenti a polemizzare sui principi dell’evoluzione di fronte a un piccolo pubblico di scimmiette con la testa ischeletrita o fossile. Il personaggio in piedi alla loro destra che agita una specie di attizzatoio davanti agli elementi chimici (indicati dai simboli dei pianeti alla maniera degli alchimisti) per John potrebbe essere il chimico (e garibaldino!) J. A. R. Newlands, che contribuì all'elaborazione della tavola periodica. Nei commenti all’articolo, tuttavia, qualcuno propone di identificarlo con il fisico irlandese John Tyndall, grande divulgatore e sostenitore della laicità della scienza, che avrebbe appena bruciacchiato le terga al personaggio in fuga al centro in alto, forse il geologo e naturalista Joseph Jukes, con il quale aveva avuto una polemica sulle misure per il carbone.

John Ptak non sa chi identificare nel personaggio che sta presiedendo il gruppo di cifre graziosamente sedute su dei piccoli sgabelli, con in mano un pesce (e un’altra metà) che riporta indicato il prezzo, ma è attratto dallo zero che fugge gridando. È questa caricatura la più enigmatica di tutta la vignetta. Non è chiaro il riferimento al pesce, che sembra di un genere asiatico, e ancora più misteriosa è la corsa disperata dello zero. Qualcuno ha identificato il personaggio nel matematico e ingegnere Charles Babbage, il trisavolo dei computer, ma nel 1865 egli aveva 74 anni, e non sembra che possa essere disegnato così giovane. Un scorsa agli Atti del convegno, pubblicati l’anno successivo a Londra da John Murray, informa che vi fu una lunga relazione sulla Teoria dei Numeri da parte del matematico londinese Henry J. Stephen Smith (pagg. 322-375 del volume I), mentre, tra le comunicazioni riguardanti la matematica e la fisica (pagg. 6-10 del volume II), si trovano quelle di O. Byrne, A. H. Curtis, del reverendo Robert Harley (Sulla teoria dei risolventi differenziali), T. A. Hirst, di C. M. Ingleby (Su un metodo per trovare i resti nelle divisioni aritmetiche), di James Joseph Sylvester (Su una classe speciale di domande sulla teoria delle probabilità). Di quest’ultimo John F. Ptak ha trovato una citazione del 1877 riguardante la relazione tra insegnamento e ricerca, che per Sylvester è “rara come un pesce parlante”, ma ciò non è sufficiente ai fini dell’identificazione del personaggio con in mano il pesce.

Placidamente seduto al centro, mentre fa il giocoliere con delle sfere terrestri, c’è il geologo scozzese Roderick Murchison, che ha un posto di rilievo nel disegno del Punch (un accenno all’imperialismo britannico?). Altri due geologi armeggiano in basso a destra: il primo sta sistemando al suo posto un pezzo della Terra e dovrebbe essere Charles Lyell, mentre l’altro infila una corta pala in un altro globo terrestre. Difficile identificarlo: John propende per riconoscere in lui il geologo e ingegnere minerario John Philips, ma forse si tratta del vulcanologo George Scrope. Sopra di loro c’è il fisico ottico e inventore David Brewster, che sta armeggiando con lo stereoscopio da lui inventato di fronte a un pubblico composto da alcuni compassi e da un telescopio. Più in alto è disegnato un maglio a vapore che si esibisce davanti a un gruppo di coltelli.


La vignetta è accompagnata da un testo scherzoso (con l’umorismo dell’Inghilterra del 1865, un po’ diverso dal nostro). Riguardo alla matematica è malauguratamente piuttosto oscuro, ma forse aiuta nella identificazione del personaggio con il pesce: “Qualche parola sulla Quadratura di un Sacrestano che stava discutendo in un circolo vizioso. Illustrato pugilisticamente. (Un baule di se stesso, compresi i guanti e un cambio di biancheria)”. E se il “sacrestano” fosse proprio il reverendo Robert Harley? Nel 1865 poteva non essersi ancora fatto crescere la barba, inoltre i tratti del viso e la pettinatura con frangia verso destra possono a mio parere motivare questa ipotesi.



venerdì 17 febbraio 2012

Altre biografie essenziali


Sapevo che Peppe Liberti prima o poi le avrebbe ripescate. L’ha fatto ieri sul blog Quantum Beat, che gestisce sul portale di Focus. Sto parlando delle biografie essenziali degli scienziati (in particolare dei fisici), ispirate da quelle più generaliste e altrettanto belle che da anni costituiscono una delle perle della collana di Barabba, la cosa editoriale del Many, Marco Manicardi, ultima delle tante glorie di Carpi. Si tratta di biografie di poche righe, talvolta scherzose, talaltra amare, che cercano di cogliere l’essenza della vita e dell’opera di un grande personaggio.

A quel gioco giocammo, nell’aprile del 2010, Peppe, io e il fisico delle particelle Tommaso Dorigo, e lo facemmo proprio sul blog di quest’ultimo, in inglese perché sui blog degli scienziati si scrive in inglese. Giunsero contributi anche dagli Stati Uniti e ci si svagò in modo intelligente sulle due sponde dell’Atlantico. Sapevo che Peppe ne aveva scritte altre, che infatti ha pubblicato nell’articolo di Focus. Anch’io avevo proseguito a scriverne da solo, ma aspettavo di renderle note perché l’idea iniziale era stata sua e suo era il diritto di parlarne per primo. Ora posso pubblicare le mie, scritte e pensate in italiano, che allargano il campo ad altre discipline oltre alla fisica e forse possiedono un pizzico di maggiore irriverenza (ergo: sono più sceme). Sono state concepite per puro divertimento (“e lasciatemi divertire!”), che spero di trasmettere al lettore.


William Gilbert provò nel De Magnete che la Terra è una grande calamita, attaccata sullo sportello del frigo dell’universo.

Secondo un biografo fiorentino, James Clerk Maxwell morì prima dei cinquant'anni in seguito al suo viaggio a Pisa.

L’abate Gregor Mendel scoprì le leggi dell’ereditarietà studiando piselli odorosi. Anche in quel caso la Chiesa cercò di mettere tutto a tacere.

Quando Volta inventò la pila, finalmente si capì come utilizzare le radioline a transistor.

Solo a Torino Avogadrò poté determinare il numero di molecole contenute nella mole.

Giordano Bruno fu una delle figure più luminose degli inizi del Seicento.

La leggenda vuole che Gerberto di Aurillac, in seguito divenuto papa Silvestro II, possedesse una testa meccanica in grado di parlare come Celentano.

Arthur Eddington fu il primo a osservare la deviazione della luce di una lampada accesa dietro a Giuliano Ferrara.

Secondo la Legge di Liebig, la crescita di una pianta è controllata dalla disponibilità della risorsa più scarsa, ma alcuni preferiscono aggiungere un pezzo di manzo e gli odori per il brodo.

Se l'istituto di fisica fosse stato in via Garibaldi, nessuno oggi ricorderebbe i ragazzi di via Panisperna.

Su L'uomo a una dimensione di Marcuse anche i matematici possono azzardare una linea di commento.

Grande esperto di geometrie non euclidee, Aldo Moro inventò le “convergenze parallele”. Il compromesso storico avvenne nell’equilibrio precario su una superficie sferica.

Storia di un’ossessione: dopo aver disegnato un pidocchio ingrandito dal microscopio, Robert Hooke non riusciva a toglierselo dalla testa.

Giuseppe Peano complicò la matematica semplificando il latino.


Le immagini che corredano questo articolo sono dell’artista russo Sergey Tyukanov, il nuovo Hyeronimus Bosch surrealista, con un po’ di Jacovitti.

martedì 14 febbraio 2012

Poesia in forma di grafo


No, non in forma di rosa, proprio in forma di grafo. Un grafo G, che è una struttura matematica costituita da un insieme di elementi detti vertici o nodi collegati fra loro da archi o spigoli. I vertici sono in genere trattati come oggetti senza caratteristiche e indivisibili.

Un arco che ha due estremi coincidenti si dice cappio, mentre più archi che connettono gli stessi due estremi costituiscono un multiarco. Un grafo sprovvisto di cappi e di multiarchi si dice grafo semplice. In caso contrario si parla di multigrafo.

Un arco orientato è un arco caratterizzato da una direzione, indicata da una freccia che esce da un vertice e entra in un altro A seconda della presenza o meno di archi orientati, si distinguono i grafi orientati (o digrafi, grafi diretti) e i grafi non orientati. Un grafo semplice non contiene archi orientati.

Un percorso di lunghezza n in G è dato da una sequenza di vertici v0, v1,..., vn (non necessariamente tutti distinti) e da una sequenza di archi che li collegano. I vertici v0 e vn si dicono estremi del percorso. Un percorso con gli spigoli a due a due distinti tra loro prende il nome di cammino. Un cammino chiuso (v0 = vn) si chiama circuito o ciclo. Un cammino in un grafo (orientato o non orientato) è detto hamiltoniano se esso tocca tutti i vertici del grafo una e una sola volta (figura a fianco). Un cammino viene invece detto euleriano quando tocca tutti gli archi del multigrafo una e una volta sola.

Un sottografo G’ è un grafo composto da un sottoinsieme dei nodi e degli archi di un grafo G più grande.

I grafi oggi sono tra i modelli più diffusi per rappresentare strutture sia naturali sia umane. Essi possono essere usati per modellizzare molti tipi di dinamiche delle relazioni e dei processi nei sistemi fisici, biologici e sociali. Molti problemi di interesse pratico possono essere affrontati mediante i grafi.

Nella informatica e nelle telecomunicazioni, i grafi sono usati per rappresentare e ottimizzare reti di comunicazione, organizzazione di dati, sistemi e algoritmi di calcolo, la struttura dei siti web, i motori di ricerca, ecc. La teoria dei grafi costituisce un'importante parte della combinatoria e trova largo utilizzo in topologia, nella teoria degli automi, nella geometria dei poliedri, nelle algebre di Lie, ecc. Essa è alla base di modelli di sistemi e processi studiati nell'ingegneria, nella fisica della materia condensata, nella chimica, nella biologia molecolare, nell’organizzazione aziendale, nella sociologia, nell’urbanistica, nello studio delle reti di traffico, nella linguistica strutturale, nella storia e nella filologia.

Come altre branche delle matematiche, la teoria dei grafi non poteva sfuggire all’attenzione dei membri dell’Oulipo, in particolare a quella di Claude Berge (1926-2002), uno dei fondatori del consorzio di letteratura potenziale nel 1960, che due anni prima aveva pubblicato il fondamentale Théorie des Graphes et ses Applications. Le opere letterarie basate sulla combinatoria, da quelle basate sui quadrati latini fino alle opere “esponenziali” come i Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau, possono infatti essere rappresentate da grafi più o meno articolati (sotto è rappresentato il grafo semplificato dell'opera di Queneau) . Berge ha proposto nel 1966 il processo inverso, cioè creare, o ricreare, opere letterarie a partire dai grafi, applicando, per ovvi motivi, questo procedimento soprattutto alle poesie.


In questo contesto il grafo è necessariamente orientato, perché le frecce devono indicare l’ordine di lettura degli archi che rappresentano i versi dell’opera, che costituiscono un percorso dal vertice iniziale a quello finale che ad essa corrisponde. Inoltre il grafo non dovrebbe presentare circuiti, cioè cammini in cui il vertice iniziale e quello finale corrispondono. Detto in termini letterari, non si può incontrare due volte lo stesso verso in un percorso che rispetti il senso delle frecce. A meno che, voglio precisare, a meno che l’opera presenti più volte lo stesso verso!

Scegliendo opportunamente i versi, è possibile creare opere che possono essere lette a partire da un punto qualunque, e che possono terminare il percorso in un punto scelto a priori. In questo caso la struttura non può essere dettata da un grafo elementare, che limiterebbe considerevolmente le possibilità combinatorie, ma richiede un multigrafo con la possibilità di scegliere tra più archi quando si collegano talune coppie di vertici. È anche possibile considerare i sottografi dell’opera, in modo da ottenere poesie più corte, a patto di rispettare l’ordine delle frecce.

Così scrive Berge in Oulipo. La letteratura potenziale (Creazioni Ri–creazioni Ricreazioni), Clueb, Bologna, 1985: “Consideriamo l'esempio semplificato della figura.



I versi corrispondenti agli spigoli che arrivano allo stesso vertice (o che ne partono) sono stati scelti sulla base di una restrizione ben precisa; per esempio, quelli che arrivano al punto D contengono tutti la parola «uomo», quelli che ne partono hanno tutti la stessa struttura grammaticale, ecc... Di fronte a questa figura, il lettore può decidere in anticipo il punto di partenza e il punto di arrivo, e cercare il «percorso» più breve. Può anche formare delle «poesie hamiltoniane», corrispondenti a un percorso che incontri una volta e una volta soltanto ognuno dei vertici. Così il cammino hamiltoniano BADC da:
«No no, dice la signora offesa, io non sono sul punto di cercare l'uomo che sputi nella brocca».
Si possono anche formare delle poesie quasi euleriane, con percorsi che non passino per nessuno spigolo più di una volta e che utilizzino il massimo numero possibile di spigoli; basandosi semplicemente su concetti fondamentali, puramente matematici, della Teoria dei Grafi, si hanno così altrettanto restrizioni... e il numero dei testi che si possono ottenere partendo dalla stessa figura è infinito!”

Stimolato da questi esempi, ho deciso di utilizzare i grafi per il trattamento oulipiano di una poesia esistente, che ho scelto proprio perché presenta la ripetizione di due versi, giusto per dare un gusto ulteriore al mio esperimento. Si tratta di D’Autunno dello scrittore salisburghese Georg Trakl (1887–1914), grande figura dell'ambiente che cantò la Finis Austriae e fu tra i primi a incarnare, nella vita e nell’opera, la solitudine e la disgregazione dell’individuo nell’era contemporanea, sempre più isolato rispetto ai suoi simili.

D’Autunno comparve in Gedichte, l’unica raccolta di poesie pubblicata da Trakl quando era ancora in vita, nel 1913. L’anno successivo, sconvolto dall’esperienza di ufficiale medico durante la Grande Guerra (era laureato in farmacia) si sarebbe suicidato a Cracovia con un’overdose di cocaina. Riporto l’opera nella traduzione che fece Ervino Pocar per l’edizione che comparve per la BUR nel 1974, scusandomi di aver numerato i versi ai fini del mio esperimento:

01. I girasoli sulla siepe splendono,
02. Gl’infermi stan seduti, zitti, al sole.
03. Donne faticano nel campo e cantano,
04. Suonano le campane del convento.

05. Dicon gli uccelli favole remote,
06. Suonano le campane del convento.
07. Da presso note di violino giungono.
08. Si pigia oggi nei tini l’uva bruna.

09. Ora l'uomo si mostra lieto ed ilare.
10. Si pigia oggi nei tini l’uva bruna.
11. Sono aperte le camere mortuarie
12. Bell’e dipinte dal fulgor del sole.

Una semplice rappresentazione del testo con un multigrafo può essere la seguente, dove i dodici versi, rappresentati dagli archi numerati, collegano i vertici da A ad I. Il verso 04 è ripetuto nel verso 06, così come lo 08 è ripetuto al 10, perciò tra D ed E e tra F e G esistono frecce che tornano indietro rispetto al percorso di lettura considerato normale. Ciò nonostante, il grafo può essere rappresentato su un piano, senza che si abbiano incroci tra gli archi.


Esistono invece grafi nei quali sono presenti coppie di archi che si intersecano. Essi non possono essere disegnati nel piano senza evitare incroci tra gli archi. Questi grafi sono detti non planari, come ad esempio il grafo completo con 5 nodi, k5 e il grafo bipartito completo con 3 + 3 nodi, k3,3. Si tratta dei due grafi che il matematico polacco Kazimierz Kuratowski dimostrò nel 1929 essere i più semplici grafi non planari: un grafo è planare se e solo se non contiene alcun sottografo che sia omeomorfo a questi due. Il secondo grafo è abbastanza noto, perché rappresenta il gioco in cui viene chiesto di collegare le tre case (i vertici in alto) con ciascuno dei tre pozzi (i vertici in basso) con sentieri che si scopre non è possibile disegnare senza intersezioni.



Tornando alla poesia, ho rappresentato il testo di Trakl anche con un multigrafo nel quale ho ridotto il numero di vertici da 9 a 5, mantenendo ovviamente inalterato il numero degli archi a 12 (come i versi). Si tratta anche in questo caso di un grafo planare (l’arco 12 può essere disegnato fuori dal pentagono in modo che non incroci altri archi), nel quale è possibile leggere per intero il testo seguendo il percorso indicato dalle frecce da 1 a 12.


Così concepito, il multigrafo offre alcune interessanti possibilità combinatorie dal punto di vista letterario. Ad esempio è possibile considerare percorsi lungo i suoi sottografi, come ad esempio quello che è composto dai vertici CEAB (versi 11, 7, 1):

Sono aperte le camere mortuarie:
da presso note di violino giungono.
I girasoli sulla siepe splendono.

Oppure si può considerare il cammino hamiltoniano ABCDE (versi 1, 2, 3, 4, 7):

I girasoli sulla siepe splendono,
Gl’infermi stan seduti, zitti, al sole.
Donne faticano nel campo e cantano,
Suonano le campane del convento.
Da presso note di violino giungono.

Il lettore può divertirsi a trovare altri percorsi consentiti dagli archi orientati, oppure può creare un grafo per esplorare oulipianamente le possibilità offerte da una poesia di sua scelta.

(I due grafi relativi a D’Autunno sono stati disegnati con il programma che ho trovato qui).

Carnevale della Matematica n. 46


Oggi è il giorno del Carnevale della Matematica, giunto alla sua quarantaseiesima puntata. Lo ospitano i Rudi Matematici (a loro ogni onore e gloria), con il tema Matematica del Carnevale. Nel ricordare che nasciamo dall’incontro di 23 + 23 = 46 cromosomi, i curatori osservano che oggi, 14 Febbraio, i lettori si trovano in periodo di Carnevale a leggere un Carnevale della Matematica che ha per tema la Matematica del Carnevale, con tutti gli articoli presentati che sono di Matematica, partecipano al Carnevale della Matematica, in pieno periodo di Carnevale. Quindi tutti i post sono in tema, senza esclusione alcuna. 
Ecco con chi avete a che fare.

sabato 11 febbraio 2012

La scienza nel Monte Analogo

Il Monte Analogo è il libro più noto di René Daumal (1908-1944), scrittore, alpinista, studioso della religione indiana, sanscritista, appartenente a quella corrente del pensiero occidentale influenzata dalle idee del filosofo e mistico Gurdjieff e dello scrittore esoterista René Guénon, depositari del cosiddetto “sapere tradizionale trasmesso nei secoli per via iniziatica” e che in realtà è un insieme costituito da concetti provenienti da tradizioni e culture diverse al quale è stata data nel XIX secolo una fittizia coerenza.

Il racconto di Daumal è diventato un libro di culto per tutti coloro che vi hanno trovato una allegoria della crescita interiore che si accompagna alle grandi prove, in un itinerario verso una vetta che è il centro in cui ciascuno può trovare la sua vera essenza. Si tratta di uno dei più comuni archetipi umani, quello dell’ascesa spirituale (qui inserita in una sorta di mistica dell’alpinismo) che ha prodotto molta letteratura in epoche e con intenti diversi, fino al sarcasmo surrealista e psichedelico de La Montagna Sacra del regista e fumettista cileno Alejandro Jodorowsky.

Il fascino del libro, rimasto incompiuto per la morte dell’autore, risiede nel suo essere un colto, intelligente e raffinato racconto di un’avventura del corpo e della mente, dalla sua ideazione e preparazione fino alla sua realizzazione. Con una trama lineare e la semplicità narrativa di un apologo, Il Monte Analogo descrive la recherche di un gruppo di otto avventurosi pellegrini, tra i quali Théodore, il narratore, e Pierre Sogol, il maestro e capo della spedizione, un fabbricante di profumi e insegnante cittadino di alpinismo, filosofo e scienziato eterodosso, teorico del pensiero analogico, che è stato frate di un ordine monastico eretico.

Le tematiche simboliche sono onnipresenti nelle pagine del testo, e in alcuni casi la narrazione sembra uscita direttamente dalla penna di Guénon, come nell’articolo di Théodore sul simbolo della montagna nelle tradizioni antiche, la cui pubblicazione sulla Revue des Fossiles è la scintilla che accende le polveri della spedizione verso il Monte Analogo, isola, montagna o continente posto nell’Oceano australe, invisibile e inaccessibile ai più, sulla cui cima hanno sede “creature superiori” e al quale si giunge percorrendo una “pendenza ascendente” in un gorgo circolare che è un collegamento spazio-temporale.

Un’opera anti-scientifica, dunque? No, innanzitutto perché, come ha scritto Mario M. Rossi nel saggio pubblicato a chiusura dell’edizione da lui curata de Il Regno Segreto di Robert Kirk, “In tutte le epoche, qualunque sia lo stato delle conoscenze scientifiche, esiste la possibilità di sostenere un occultismo logicamente fondato che rispetti, anzi usi, gli ultimi risultati della scienza dell’epoca”. Piaccia o non piaccia è proprio così: le scoperte sul magnetismo alimentarono ad esempio l’infatuazione mesmerista del primo Ottocento, come la nascita in campo matematico delle geometrie a n-dimensioni e le scoperte dei raggi-X e della radioattività provocarono una rinascita dello spiritismo e il successo, soprattutto presso gli artisti, della ricerca delle “realtà invisibili” e della “consapevolezza cosmica” quadridimensionale. In secondo luogo perché Daumal si dimostra assai informato sulle scoperte scientifiche e le elaborazioni teoriche più recenti.

La relatività di Einstein e la sua conferma da parte della spedizione di Arthur Eddington, che nel 1919, in occasione di un’eclisse di Sole, osservò la curvatura della luce provocata dalla grande massa della nostra stella, sono esplicitamente citate nel discorso con il quale Sogol illustra l’esistenza del Monte Analogo ai membri della spedizione nel corso della loro prima riunione:

“Sapete, d'altra parte, che un corpo qualsiasi esercita di fatto un'azione repulsiva di questo tipo sui raggi luminosi che passano vicino a esso. Il fatto, previsto teoricamente da Einstein, è stato verificato dagli astronomi Eddington e Crommelin il 30 maggio 1919, in occasione di un'eclissi di sole; essi hanno constatato che una stella poteva essere ancora visibile pur trovandosi, rispetto a noi, dietro il disco solare. Tale deviazione è, senza dubbio, minima. Ma non potrebbero esistere sostanze ancora sconosciute — sconosciute, d'altronde, per questa stessa ragione — capaci di creare intorno a sé una curvatura dello spazio molto maggiore? Dev'essere cosi, perché questa è la sola spiegazione possibile dell'ignoranza in cui è rimasta fino a oggi l'umanità, circa l'esistenza del Monte Analogo.

Ecco dunque quello che ho concluso, eliminando semplicemente tutte le ipotesi insostenibili. In qualche punto della Terra esiste un territorio con una circonferenza di almeno diverse migliaia di chilometri, sul quale si innalza il Monte Analogo. Il basamento di questo territorio è formato da materiali che hanno la proprietà di curvare lo spazio intorno a sé in modo tale che tutta la regione sia rinchiusa in un guscio di spazio curvo. Da dove vengono questi materiali? Hanno un'origine extraterrestre? Vengono forse da quelle regioni centrali della Terra di cui conosciamo così poco la natura fisica da poter dire soltanto, secondo i geologi, che nessuna materia può esistervi, né allo stato solido, né allo stato liquido, né allo stato gassoso? Non so, ma lo sapremo sul posto, presto o tardi. Quello che posso ancora dedurre, per altro, è che questo guscio non può essere completamente chiuso; deve essere aperto in alto per poter ricevere le radiazioni di ogni specie che vengono dagli astri, necessarie alla vita di uomini comuni; deve anche inglobare una massa ragguardevole del pianeta, e certo aprirsi anche verso il suo centro per una ragione simile.



Si alzò per buttar giù uno schizzo su una lavagna.
— Ecco, schematicamente, come possiamo rappresentarci questo spazio; le linee che traccio rappresentano ciò che potrebbero essere, per esempio, le traiettorie dei raggi luminosi; vedete che queste linee direttrici si allargano in qualche modo nel cielo, dove si ricongiungono allo spazio generale del nostro cosmo.
Questo allargarsi si deve produrre a un'altezza tale — molto superiore allo spessore dell'atmosfera — che non si può pensare di penetrare nel «guscio» dall'alto, in aereo o in pallone.



Se ora rappresentiamo il territorio su un piano orizzontale, abbiamo questo schema. Notate che la regione stessa del Monte Analogo non deve presentare alcuna sensibile anomalia spaziale, dato che devono potervi sussistere degli esseri simili a noi. Si tratta di un anello di curvatura, più o meno largo, impenetrabile, che circonda il luogo a una certa distanza con un baluardo invisibile, intangibile; grazie al quale, insomma, è proprio come se il Monte Analogo non esistesse. Supponendo — vi dirò subito perché — che il territorio cercato sia un'isola, rappresento qui la rotta di una nave che va da A a B. Noi siamo su questa nave. In B c'è un faro. Da A, punto un cannocchiale nella direzione del percorso della nave; vedo il faro B la cui luce ha aggirato il Monte Analogo, e non sospetterei mai che tra il faro e me si estenda un'isola ricoperta di alte montagne. Continuo la mia strada. La curvatura dello spazio devia la luce delle stelle e anche le linee di forza del campo magnetico terrestre, in modo che, navigando col sestante e la bussola, sarò sempre convinto di andare in linea retta. Senza dover spostare il timone, la mia nave, curvandosi anch'essa insieme con tutto ciò che si trova a bordo, si adatterà al contorno che ho tracciato sullo schema da A a B. Dunque, anche se questa isola avesse le dimensioni dell'Australia, è ora del tutto comprensibile come nessuno si sia mai accorto della sua esistenza. Vedete?

(…)

Per trovare il modo di penetrare nell'isola, bisogna porre come principio, e lo abbiamo già fatto, la possibilità, anzi la necessità di penetrarvi. La sola ipotesi ammissibile è che il «guscio di curvatura» che circonda l'isola non sia assolutamente — cioè sempre, ovunque e per tutti — insuperabile. In un certo momento e in un certo posto, certe persone (quelle che sanno e che vogliono) possono entrare. Il momento privilegiato che cerchiamo deve essere determinato da un campione di misura del tempo che sia comune al Monte Analogo e al resto del mondo; dunque da un orologio naturale e, molto probabilmente, dal corso del Sole. Quest'ipotesi è fortemente avvalorata da certe considerazioni analogiche ed è confermata dal fatto che risolve un'altra difficoltà. Riportatevi al mio primo schema. Vedete che le linee di curvatura si allargano molto in alto nello spazio. In che modo dunque il Sole, nella sua corsa diurna, potrebbe inviare in continuazione le sue radiazioni all'isola? Bisognerà ammettere che il Sole ha la proprietà di «decurvare» lo spazio che circonda l'isola. Dunque, al suo sorgere e al suo tramontare, deve in qualche modo fare un buco nel guscio, e per questo buco noi entreremo!"

In effetti tutta l’avventura si svolge secondo geometrie non euclidee, con la “curvatura dello spazio” che falsa “tutte le misure, rendendo ogni situazione in bilico tra la fiaba e la teoria scientifica” (così scriveva Claudio Rugafiori nella lunga postfazione della prima edizione di Adelphi nel 1968). Vano è pertanto ogni tentativo di Sogol di dedurre “nozioni precise sulle anomalie causate nella prospettiva cosmica dal guscio di spazio curvo che circonda il Monte Analogo”.

Le biotecnologie e certe tecnologie astronautiche sembrano anticipate nelle soluzioni trovate al problema dei rifornimenti alimentari durante il viaggio per mare e la lunga attesa del momento propizio per giungere sull’isola. Un ingegnoso metodo avrebbe consentito la respirazione ad alta quota:

“L'arte di nutrirsi è una parte importante dell'alpinismo, e il dottore l'aveva portata a un alto grado di perfezione. (…) Beaver aveva inventato un «orto portatile» che non pesava più di cinquecento grammi; era una scatola di mica che conteneva una terra sintetica in cui si piantavano certi semi a crescita estremamente rapida; in media ogni due giorni, ciascuno di questi apparecchi produceva una razione di vegetali verdi sufficiente per un uomo — oltre a dei funghetti deliziosi. Egli aveva anche cercato di mettere a profitto i metodi moderni di coltura dei tessuti (invece di allevare buoi, diceva a se stesso, si potrebbero coltivare direttamente delle bistecche), ma era arrivato a ottenere soltanto impianti pesanti e fragili e prodoti disgustosi; così aveva rinunciato a quei tentativi. Era meglio far a meno della carne.

Con l'aiuto di Hans, d'altra parte, Beaver aveva perfezionato gli apparecchi di respirazione e di riscaldamento che aveva usato sull'Himalaya. L'apparecchio di respirazione era molto ingegnoso. Una maschera di tessuto elastico veniva adattata al viso. Attraverso un tubo l'aria espirata era inviata nell'«orto portatile» dove la clorofilla dei vegetali giovani, iperattivata dalle radiazioni ultraviolette delle grandi altitudini, fissava il carbonio dell'anidride carbonica e restituiva all'uomo l'ossigeno supplementare. Il movimento dei polmoni e l'elasticità della maschera mantenevano una leggera ipercompressione, e l'apparecchio era regolato in modo da assicurare un tasso optimum di anidride carbonica nell'aria inalata. Inoltre i vegetali assorbivano l'eccesso di vapore acqueo espirato e il calore del respiro attivava il loro sviluppo. Così funzionava, su scala individuale, il ciclo biologico vegetale–animale, cosa che permetteva una notevole economia di alimenti. In breve, si realizzava una specie di simbiosi artificiale tra l’animale e il vegetale”.

Elementi di paleontologia, in special modo i calchi fossili e i modelli interni (o forse i resti di corpi riempiti di ceneri vulcaniche come a Pompei e Ercolano) possono essere ritrovati nella Storia degli uomini cavi, una delle più belle pagine di tutto il racconto:

“Gli uomini-cavi abitano nella pietra, dove circolano come caverne vaganti. Nel ghiaccio passeggiano come bolle dalla forma d'uomo. Ma non si avventurano nell'aria, perché il vento li porterebbe via.
Hanno delle case nella pietra con i muri fatti di buchi, e delle tende nel ghiaccio la cui tela è fatta di bolle. Di giorno rimangono nella pietra e di notte errano nel ghiaccio, dove danzano al plenilunio. Ma non vedono mai il sole, altrimenti scoppierebbero.
Non mangiano che il vuoto, mangiano la forma dei cadaveri, si inebriano di parole vuote, di tutte le parole vuote che noi pronunciamo.
Alcuni dicono che sempre furono e sempre saranno. Altri dicono che sono dei morti. E altri ancora dicono che ogni uomo vivente ha nella montagna il suo uomo-cavo, come la spada ha il suo fodero, come il piede ha la sua impronta, e che, alla morte, essi si ricongiungono”.

L’ultima pagina scritta da Daumal e lasciata in sospeso a metà di una frase, dimostra inoltre una sua precoce attenzione alle tematiche ecologiche:

“II vecchio topo che avevo ucciso si nutriva prevalentemente di una specie di vespa che abbondava in quel luogo. Ma, soprattutto alla sua età, un topo di roccia non è abbastanza agile per prendere le vespe al volo; così mangiava soltanto quelle malate e deboli che si trascinavano per terra e volavano via con difficoltà. In questo modo, distruggeva le vespe portatrici di tare o di germi che, per eredità o per contagio, avrebbero diffuso, senza il suo intervento inconsapevole, numerose malattie nelle colonie di quegli insetti. Morto il topo, queste malattie si propagarono rapidamente e, la primavera seguente, non c'erano quasi più vespe in tutta la regione. Ora queste vespe, succhiando i fiori, assicuravano la loro fecondazione. Senza di loro, una quantità di piante che hanno molta importanza nella fissazione dei terreni mobili,”

Nell’aprile 1944, gravemente ammalato di tubercolosi e oramai infermo (sarebbe morto il mese seguente), Daumal ricevette la visita dell’amico André Rolland de Renéville, al quale raccontò come intendeva finire il libro. Nelle sue parole c’è una bellissima descrizione di quella che egli chiamò “una delle leggi del Monte Analogo”, che ritengo possa rappresentare il progredire delle conoscenze umane e, perché no, di quelle scientifiche, come un processo di ascesa in cui degli uomini aprono vie che altri uomini seguiranno, i quali a loro volta ne apriranno altre, in una serie di successivi avanzamenti nei quali la comunicazione è indispensabile, pena il fallimento dell’impresa.

(…) per raggiungere la cima, bisogna andare di rifugio in rifugio. Ma prima di lasciare un rifugio, si ha il dovere di preparare gli esseri che devono venire a occuparvi il posto che si lascia. E solo dopo averli preparati, si può salire più in alto. Per questo, prima di lanciarci verso un nuovo rifugio, abbiamo dovuto ridiscendere per trasmettere le nostre prime conoscenze ad altri ricercatori...”

II titolo del suo ultimo capitolo doveva essere: «E voi, che cosa cercate?».


(Grazie a Aubrey McFato per gli utili link che mi ha segnalato)