venerdì 31 maggio 2013

Confesso che ho studiato

Confesso che ho studiato, che ho speso molta parte della mia giovinezza a leggere libri, a fare esercizi, a riflettere su quanto imparavo. Senza rinunciare al divertimento e agli amici, allo sport, senza rinunciare a un po’ di impegno politico, ho capito per esperienza, prima ancora di conoscerle, le parole che Gramsci scriveva nel 1932 dal carcere: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”. Una gran fatica (e un grande investimento e sforzo della mia famiglia), ma premiata dal piacere incomparabile della scoperta, della conoscenza, di una dignità conquistata. 

Confesso che ho studiato anche perché credevo che la conoscenza fosse, com'era sempre stata, un mezzo di promozione sociale, sia per la possibilità che offre di inserirsi più facilmente nel mondo del lavoro, sia perché la cultura è libertà, libertà dai condizionamenti palesi e occulti, libertà di criticare con cognizione di causa, libertà del dubbio. Più si conosce e più ci si accorge di non sapere. Ciò spinge a voler conoscere di più (la cultura è curiosità), ma anche alla critica di ogni verità precostituita, basata sull'autorità o il potere di qualcuno (umano o celeste che sia) o sulla sua diffusione nella società. 

Confesso che ho studiato e mi accorgo che in parte ho vissuto di illusioni. Confesso di sentirmi sempre più estraneo in un paese dove non si premia il merito ma la fedeltà a un potente, un paese popolato di ignoranti vincenti che impongono i loro modelli fatti di soldi, sesso e successo, dove non si investe più in ricerca e istruzione, dove i dati di fatto sono considerati come opinioni alla stregua delle false speranze, dei sogni, delle bufale, scientifiche oppure no, propalati attraverso ogni mezzo di comunicazione, dove un idiota sicuro di sé (come lo sono gli idioti) ha più ascolto e considerazione sociale di un ingegno dubbioso, di uno che esige da sé e dagli altri onestà intellettuale. 

Confesso che ho studiato e sono stanco di dovermi confrontare con cafoni ignoranti in molte situazioni sociali (in posta, a scuola, sul treno, ecc.), sono stanco che la fatica e i soldi investiti per decenni alla fine valgano così poco. Se fossi giovane me ne andrei all'estero, o farei la rivoluzione, finalmente. Ma ho 57 anni e crescono solo la sfiducia e il disincanto. 

Confesso che ho studiato e mi ritrovo cinico e misantropo.

giovedì 30 maggio 2013

Qualche haiku vagamente matematico


Due, tre, cinque, 
poi sette, poi undici 
storni sull’olmo. 


Svuota la mente, 
fatti attraversare 
dall’infinito. 


A casa Riemann 
battono alla porta, 
ma resta chiusa. 


Magica grazia: 
la spirale costante 
dell’ammonite. 


Tre alla cento: 
non basta la vita 
per pronunciarlo.


E se la pulce 
avesse tante pulci 
con altre pulci? 


Non conosciamo 
ciò che sta tra infiniti 
 d’aleph diversi. 


C’è chi s’ostina 
a divider per zero 
lo zero che è.


martedì 28 maggio 2013

La lucida saggezza del Saggio sulla lucidità

«Come gli altri presidenti di seggio nella città, questo della sezione elettorale numero quattordici aveva chiara coscienza che stava vivendo un momento storico unico. Quando, già avanti nella serata, dopo che il ministero dell'interno aveva prorogato di due ore la fine della votazione, periodo cui fu necessario aggiungere un'altra mezz'ora affinché gli elettori che si accalcavano dentro l'edificio potessero esercitare il diritto di voto, quando infine i membri del seggio e i rappresentanti di lista, estenuati e affamati, si ritrovarono davanti alla montagna di schede che erano state rovesciate fuori dalle due urne, la seconda requisita d'urgenza al ministero, la grandiosità del compito che avevano davanti li fece rabbrividire di un'emozione che non esiteremo a definire epica, o eroica, come se i mani della patria, redivivi, si fossero magicamente materializzati in quei fogli di carta. Era passata la mezzanotte quando lo scrutinio terminò. I voti validi non arrivavano al venticinque per cento, distribuiti fra il partito di destra, tredici per cento, il partito di mezzo, nove per cento, e il partito di sinistra, due e mezzo per cento. Pochissimi i voti nulla, pochissime le astensioni. Tutte le altre schede, più del settanta per cento del totale, erano bianche». 

Nel racconto lungo (o romanzo breve) di José Saramago (1922-2010), Saggio sulla lucidità (Einaudi, 2005, poi Feltrinelli, 2011) una sorta di continuazione di Cecità, l’autore sviluppa la narrazione, come è uso fare, partendo da una premessa surreale. Nella capitale di un paese non precisato, i cittadini chiamati alle urne votano in massa scheda bianca: le schede intonse raggiungono il 74 per cento. Le elezioni sono annullate e la polizia usa metodi duri contro i cittadini, creando un clima di intimidazione. Si torna alle urne, e l’esito è ancor più sconcertante: il voto di protesta raggiunge l’82 per cento. Nell'unica occasione concessa loro da un sistema sedicente democratico, retto da un potere arrogante e sordo alle critiche crescenti, gli elettori manifestano così il loro totale dissenso verso i tre partiti in lizza, il p.d.d. (partito di destra), il p.d.m. (partito di mezzo), il p.d.s. (partito di sinistra). In questo modo reagisce il Presidente, il Napolitano di quella ignota repubblica: 

«Siete voi, sì, soltanto voi, i colpevoli, siete voi, sì, che ignominiosamente avete disertato dal concerto nazionale per seguire il cammino contorto della sovversione, della indisciplina, della più perversa e diabolica sfida al potere legittimo dello stato di cui si abbia memoria in tutta la storia delle nazioni » 

La cosa che più preoccupa il sistema politico è il fatto che non si tratta di assenteismo, magari dettato dal maltempo, da pigrizia o indifferenza. L’affluenza ai seggi è stata altissima. I cittadini sono andati a votare e hanno votato scheda bianca, sfiduciando così l’intera classe politica. Non è mio intento raccontare come prosegue la vicenda (c’è anche un uomo con la cravatta blu e i pallini bianchi), voglio solo sottolineare ancora una volta la lucida preveggenza e l’attualità della grande letteratura. 

martedì 21 maggio 2013

ELOGEREMMO SOLO SOMME REGOLE

Il bellissimo palindromo del titolo è servito a battezzare l’incontro che ho avuto a Roma il 15 maggio scorso con il suo autore, il matematico Marco Buratti, professore ordinario di Geometria presso l’Università di Perugia, esperto di Matematica Discreta. Buratti è autore di due libri di palindromi e da otto anni cura la rubrica “Né capo né coda” nel domenicale de Il Sole 24 Ore. L’occasione è stato l’invito rivolto a entrambi, da parte di Roberto Natalini di MaddMaths, di parlare di regole, secondo la formula adottata nel ciclo di incontri MaddMaths racconta, giunto con il nostro al suo quarto e penultimo episodio per il 2013. 


Abbiamo allora parlato di regole, e di molte altre cose, in modo abbastanza sregolato, toccando etimologia, arte, matematica, letteratura, enigmistica, palindromi, poesia monovocalica, politica, eccetera, così come si conviene a una libera chiacchierata tra persone che amano quello che fanno. Qui sotto c’è il video, per il quale ringraziamo l’ottima e gentilissima Anna Parisi della Libreria Assaggi, che ospita questi incontri (e molti altri, tutti meritevoli di attenzione).

 

L’ultimo incontro del ciclo MaddMaths racconta si terrà il 29 maggio, alle 17, sempre presso la Libreria Assaggi, nel cuore del quartiere San Lorenzo, e avrà come protagonisti Roberto Natalini, questa volta in veste di relatore oltre che di anfitrione, e la matematica e scrittrice Chiara Valerio, sul tema contare. Anatema su chi, pur potendo andarci, non ci andrà.

lunedì 13 maggio 2013

La foca


La foca
che gioca 
con la palla 
sul naso:
che caso, 
non falla, 
la lancia, 
l’arresta 
di pancia, 
poi, lesta, 
di testa. 
Che festa, 
che mosse, 
se fosse 
la foca 
che gioca, 
ma ha... 
ha l’aria 
dell’otaria.

giovedì 9 maggio 2013

Sinisgalli e il Carciopholus romanus


"Dei miei compagni d’infanzia una figura ancora mi sfugge, una figura che ho cercato sempre di acciuffare tra le tante così dolcemente arrendevoli che si sono impigliate nelle mie pagine. È Giuseppe, il piccolo mostro, figlio di Rosa Mangialupini. Chi me lo avrebbe detto che nella forma dei lupini, ingrandita convenientemente, io avrei visto un giorno realizzato il sogno di Gauss, il sogno di una geometria non euclidea, una geometria barocca come mi piace chiamarla, una geometria che ha orrore dell’infinito? Ma proprio l’altro ieri, in una delle mie visite settimanali al professor Fantappiè, titolare di Analisi al Seminario di Alta Matematica, ho fatto la conoscenza di un simulacro molto più complesso della forma dei lupini, la superficie romana di Steiner. È una superficie chiusa del quarto ordine a variabile complessa. È una curiosa forma, quella che io ho visto, un tubero grande quanto un sasso, con tre ombelichi. Il matematico tedesco Steiner la trovò al Pincio meditando, una mattina del 1912, al Pincio, proprio seduto su una di quelle panchine dove io, ragazzo, andavo a leggere I canti di Maldoror. Anche i geometri hanno lasciato quell’aggettivo davanti alla forma, l’hanno chiamata romana. T. S. Eliot, nel canto di Simeone, evoca i giacinti romani: “I giacinti romani fioriscono nei vasi...” ha tradotto Montale. E chi sa perché nella mia mente ho sposato le due immagini: i giacinti e questo strano frutto matematico, un frutto degli orti mediterranei, una specie di pomodoro singolare, un pomodoro - per intenderci - con tre uncini. Pensate a quei pasticci che fanno oggi i frutticoltori, quando piantano un seme dentro l’altro o tre semi, legati in uno, quando sposano il giglio o la rosa; pensate al cedro, con spicchi interni di limone e di arancia, della bizzarria di cui scrisse Redi al Principe Leopoldo. Ebbene questa forma fa pensare ai fratelli e alle sorelle siamesi. Il professor Conforti, il professor Severi, il professor Fantappiè, tre luminari – Severi alto e ricciuto, Fantappiè tondo e piccolo, Conforti magro e mezzano – che erano vicini a me, a guardare quella forma, sembravano commossi, commossi tanto quanto Linneo allor che seppe della Lacerta faraglionis, la lucertola azzurra che vive soltanto sui Faraglioni di Capri, nel minimo habitat che si conosca sulla terra. “Questa superficie” io dicevo “è un frutto romano, come il carciofo”. Ma Severi, Conforti e Fantappiè ne enumeravano invece tutte le mirifiche proprietà: quattro cerchi generatori, tre poli tripli, un’area calcolabile per integrali razionali, e poi non so che altre diavolerie. A me pareva di sentire Linneo parlare dei carciofi: carciopholus picassianus, carciopholus guttusii, carciopholus pipernensis aut romanus. (...) Ma la superficie romana di Steiner più che dell’humus del Testaccio e degli orti gianicolesi, più che del fertile ferro del suburbio sembrava lavorata dall’aria e dalla luce di Roma, come un bel ciottolo di travertino: era una spugna di calcare con tre buchi, tre acciaccature, tre cavità. Una forma con tre gobbe, una borrominata, ecco tutto. Immaginate una sfera elastica, pressata dalle punte di tre coni. Doveva avere speciali virtù acustiche, doveva avere un udito finissimo, perché davvero era tutta orecchi, sembrava una sonda acustica calata nello spazio. Anche i gobbi hanno i padiglioni auricolari assai ricettivi. Sono lì continuamente all’erta dietro le tende, dietro le porte delle favorite dei Re. Questi mostri maledetti non perdevano una sillaba che uscisse fuori dalla bocca delle concubine regali, non uno sbadiglio, non uno starnuto. E così il mio amico d’infanzia Giuseppe Mangialupini. Andava a riferire tutti i nostri discorsi all’Arciprete". (...) 

Leonardo Sinisgalli, Carciopholus Romanus. In Furor Mathematicus, Milano, Mondadori, 1950 


Leonardo Sinisgalli (1908-1981), poeta, prosatore, saggista nonché ingegnere, tecnico, pubblicitario, fondatore e direttore di riviste come il Pirelli o Civiltà delle Macchine, con studi matematici di prim'ordine  è stato uno degli intellettuali più brillanti del secolo scorso, uno dei pochi in Italia, con Gadda e Calvino, che ha considerato con lo stesso interesse la cultura umanistica e quella scientifica, assegnando loro pari dignità o non considerandole separate. Prima di laurearsi in ingegneria industriale, nel 1931, aveva frequentato la facoltà di matematica a Roma, vivendo il fervore intellettuale di un ambiente animato da alcuni tra i più grandi matematici italiani, come egli stesso ricorda nel Carciopholus

Il racconto è incentrato su una superficie algebrica nota come romana di Steiner, scoperta dal matematico svizzero Jakob Steiner (1796 – 1863) durante un soggiorno a Roma, nel 1836 (e non nel 1912 come indicato erroneamente da Sinisgalli). Si tratta di una quartica con infiniti punti singolari il cui insieme forma tre rette doppie che si intersecano in un punto, punto triplo per la superficie. Il modello di tale superficie, che assomiglia a un tetraedro con le facce schiacciate al centro fino ad incontrarsi, doveva essere presente presso l’Istituto, come usava allora a scopo didattico. La curiosa forma, e il nome che la caratterizza, hanno ispirato a Sinisgalli l’accostamento con l’umile lupino, poi con il pomodoro (immagino un “cuore di bue” degenere), infine con un tipico e celebrato prodotto degli orti laziali, il carciofo romano, quello tondeggiante, protagonista della cucina della capitale (che personalmente ho conosciuto grazie a un matematico). 


Del grande fascino operato dai modelli delle superfici algebriche sulle avanguardie artistiche del ‘900 mi sono occupato in un precedente articolo. Negli anni ’30 del secolo scorso due diversi movimenti artistici, i surrealisti e i costruttivisti, scoprirono più o meno contemporaneamente il valore estetico dei modelli delle superfici cubiche e quartiche, tuttavia il rapporto tra i modelli delle superfici algebriche e il mondo dell’arte fu temporaneo e superficiale. Non ci fu mai un dialogo tra i matematici che avevano costruito quei modelli e gli artisti che li usarono come fonte d’ispirazione. Il mondo dell’arte li considerò come oggetti dei quali i costruttori non avevano saputo cogliere la qualità estetica. Leonardo Sinisgalli, forte della sua competenza matematica, non solo ne colse il valore estetico, ma giunse a proporli per l’ispirazione di “architetti, ingegneri e disegnatori industriali”. Così scriveva nel saggio Geometria barocca, pubblicato sul Pirelli del giugno 1950, lo stesso anno del Furor Mathematicus

Quei piccoli corpi, poco più grandi di un pugno chiuso o di una pigna, erano stati costruiti col metodo cartesiano punto per punto partendo da un’equazione di x, y, z, e attribuendo a x e y una doppia serie di valori. È un metodo ormai familiare ai tecnici costruttori di velivoli o di motori, un metodo rappresentativo che trasforma una espressione algebrica in una forma – linea o superficie – piana o sghemba, continua o discontinua. La figura che risulta da queste operazioni rende visibili tutte le singolarità algebriche dell’equazione. Chi non sa che un’equazione di primo grado in x e in y è l’immagine di una retta e che i coefficienti della x e della y (il loro rapporto anzi) determinano l’inclinazione della retta? 
Come ho detto, dunque, un geometra legge nelle equazioni quello che noi leggiamo sulle figure. Un geometra sa che una differenza di scrittura si tramuta in una caratterizzazione somatica della forma. (…) 

Quale utilizzazione può fare la nostra cultura di queste forme superiori? Io mi rivolgo specialmente agli architetti e ai disegnatori di macchine e di oggetti utili. Mi pare che la spinta verso un plasticismo matematico di contenuto quasi trascendentale potrebbe giovare contro la brutalità di uno standard incontrollato e casuale. Tanto più che la ricchezza di questi prototipi è veramente inesauribile e inesauribile è l’impiego che ne fa la natura dai semi ai frutti, dalle uova ai sassi, alle conchiglie. 
Quando Einstein parla di spazi curvi quadridimensionali (e che purtroppo, da un lato, restano per noi invisibili), sottintende da parte nostra una partecipazione che non potrà mai manifestarsi se prima non sia stata sollecitata un’attitudine in noi a beneficiare di questi messaggi e di questi stimoli delle nuove geometrie barocche. 

Sulla stessa rivista, esattamente un anno dopo, avrebbe scritto parole che è difficile non sottoscrivere in pieno: 

La Scienza e la Tecnica ci offrono ogni giorno nuovi ideogrammi, nuovi simboli, ai quali non possiamo rimanere estranei o indifferenti, senza il rischio di una mummificazione o di una fossilizzazione totale della nostra coscienza e della nostra vita. (...) Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti. I Poeti non devono aver sospetto di contaminazione. Lucrezio, Dante e Goethe attinsero abbondantemente alla cultura scientifica e filosofica dei loro tempi senza intorbidare la loro vena. Piero della Francesca, Leonardo e Dürer, Cardano e Della Porta e Galilei hanno sempre beneficiato di una simbiosi fruttuosissima tra la logica e la fantasia

venerdì 3 maggio 2013

La quercia del Tasso

La quercia di Torquato Tasso esiste per davvero, sulle pendici del Gianicolo, nei pressi della chiesa di Sant’Onofrio. La leggenda vuole che il poeta si sedesse alla sua ombra negli ultimi tempi della sua vita, quando era ospite del convento annesso alla chiesa. La quercia, ora un tronco rinsecchito addossato a un muretto, si trovava allora nel giardino del convento, dove il poeta si spense il 25 aprile 1595. Il suo sepolcro si trova in una cappella laterale della chiesa. 

Anche questo luogo di memorie non è sfuggito alla prosa surreale di Achille Campanile (1899-1977), uno dei più grandi e prolifici umoristi italiani, scrittore di narrativa e di teatro, giornalista e critico televisivo, che con le sue opere ha percorso quasi tutto il '900, dalla fine degli anni ’20 fino agli ’70. Quasi uno scioglilingua, spesso recitato come monologo teatrale, la Quercia del Tasso, si regge principalmente su una serie di giochi di parole e di allitterazioni, basati sui diversi significati della parola tasso. Il raccontino comparve in Vite degli uomini illustri, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1979 ed è un classico dello stile di Campanile. Lo propongo nell'interpretazione di una brava attrice della compagnia degli ZappAttori, data presso il teatro "La Casetta" di Roma per la rassegna "I Volti della Follia" (2011). Sotto c’è il testo.

 

La quercia del Tasso 

Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa. 

Anche a quei tempi la chiamavano così. 

Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide. 

Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi. 
Un caso. 

Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso. 

Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri. 

Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “E’ il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”. 

Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?” 

“Della quercia del Tasso.” 

E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”. 

Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due). 

Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso. 

Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia. 

Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi. 

Viveva. 

E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”. 

Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”. 

Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”. 

Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso. 

Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso. 

Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

giovedì 2 maggio 2013

Tolstoj, la storia, la matematica


Generalmente sono piuttosto dubbioso sull'utilizzo della matematica per spiegare concetti che sembrano toccarla solo di sfuggita. Ma, sono d’accordo con Coleridge, essa è per lo scrittore una fonte inesauribile di metafore. Lev Tolstoj ha talvolta utilizzato concetti presi dalla matematica per illustrare le sue idee. In un famosissimo brano di Guerra e Pace (III, III, I), egli espone la sua concezione della storia come continuum di fatti e “volontà” impercettibili e collettivi, che anticipa in qualche modo la lezione degli storici francesi della Scuola delle Annales, che spostarono l'attenzione dallo studio della storia degli "eventi", delle res gestae, a favore dello studio delle strutture che emergono nei “tempi lunghi”. Per far ciò Tolstoj utilizza un’immagine efficace che deriva dalla cinematica e dal calcolo differenziale e integrale, dagli infinitesimi di Newton e Leibniz: 

“L'intelligenza umana non può comprendere la continuità assoluta del movimento. Le leggi di qualunque movimento non diventano comprensibili per l'uomo che al patto di esaminarne separatamente le unità di cui è composto. Ma al tempo stesso, dal fatto che si isolano arbitrariamente e si esaminano a parte le unità inseparabili del movimento continuo, derivano la maggior parte degli errori umani. Una branca moderna della matematica, avendo raggiunto l'arte di trattare con l'infinitamente piccolo, può ora fornire soluzioni in altri problemi di moto più complessi, che sembravano essere insolubili. Questa branca moderna della matematica, ignota agli antichi, trattando i problemi di moto ammette il concetto dell'infinitamente piccolo, e si conforma così alla condizione principale del moto (continuità assoluta) e in questo modo corregge l'inevitabile errore che la mente umana non può evitare quando tratta con elementi separati del moto invece che esaminare il moto continuo. Nell'esame delle leggi del movimento storico avviene assolutamente la stessa cosa. Il movimento dell'umanità, prodotto da una quantità innumerevole di volontà umane, si compie senza interruzione. La comprensione di queste leggi è lo scopo della storia. Ma per capire le leggi del movimento continuo, la ragione umana ammette unità arbitrarie separate. Il primo procedimento storico consiste nel prendere arbitrariamente una serie degli avvenimenti ininterrotti ed esaminarla separatamente dagli altri, quando non c'è e non può esserci inizio di alcun avvenimento. Il secondo procedimento consiste nell'esaminare gli atti di un uomo, imperatore o condottiero, come la risultante delle volizioni degli uomini, mentre questa risultante non si esprime mai nell'attività di un personaggio storico preso isolatamente. La scienza storica, evolvendosi, accetta sempre unità via via più piccole per le sue ricerche e, con questo, cerca di avvicinarsi alla verità. Ma per quanto piccole siano le unità di cui la storia si serve, il fatto di separare l'unità, di ammettere il cominciamento di un fenomeno qualunque, di vedere espresse dell'attività di un solo personaggio le volizioni di tutti gli uomini, questo fatto stesso, dico, lo contamina d'errore. Sotto il minimo sforzo della critica, ogni conclusione della storia cade in polvere e non lascia niente dietro di Sé, e ciò per il solo fatto che la critica sceglie per misura di osservazione un'unità più grande o più piccola – ciò che è suo diritto, poiché l'unità storica è sempre arbitraria. Soltanto prendendo per nostra osservazione l'unità infinitamente piccola – le differenziali della storia, vale a dire le aspirazioni uniformi degli uomini – e acquistando l'arte di integrare (unire le somme di questi infinitamente piccoli) possiamo sperare di comprendere le leggi della storia”. 

Lev Tolstoj, Guerra e pace, traduzione di A. S. Gladkov e A. M. Osimo, U. Mursia & C., Milano, 1956