domenica 21 giugno 2015

Eureka!: l’universo in evoluzione di Edgar Allan Poe

ResearchBlogging.orgIl 19 aprile 1610, Keplero, senza nemmeno aver verificato le scoperte comunicate nel Sidereus nuncius di Galileo, pubblicato solo da alcune settimane, inoltrò allo scienziato italiano, tramite l'ambasciatore di Toscana, una lunga lettera di approvazione e commento. Essa fu poi pubblicata a Praga nei primi giorni di maggio, con notevoli varianti ed ampliamenti, con il titolo Dissertatio cum Nuncio Sidereo. Nella sua ampollosa prosa latina, il tedesco pose per primo una domanda apparentemente banale, soprattutto in quei tempi senza inquinamento luminoso: “Perché il cielo notturno è buio?”. Egli sapeva che la risposta altrettanto banale, e cioè “Perché di notte non c’è la luce del Sole”, non è scontata. 


Keplero era un convinto assertore della finitezza dell’universo. Egli utilizzò la domanda come argomento contro l’idea di un universo infinito con un numero infinito di stelle. Se l’universo fosse pieno di stelle come il nostro Sole e si estendesse senza fine, allora, sosteneva, “l’intera volta celeste sarebbe luminosa come il Sole (…) questo nostro mondo non appartiene a uno sciame indifferenziato di innumerevoli altri”. Se le stelle fossero infinite e disposte in ogni punto della volta celeste, allora il nostro sguardo dovrebbe incontrare in ogni caso le loro luci, sia di giorno che di notte. 


La domanda di Keplero prende oggi il nome di “Paradosso di Olbers”, dal nome dell’astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers, che lo espose nel 1826. La sua domanda “come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l'infinità di stelle presenti nell'universo?” supponeva alcune qualità dell’universo che la cosmologia del suo tempo, sulla scorta del sistema di Newton, dava per scontate: l’universo è infinito (la sua estensione spaziale non ha limiti), eterno (esiste da sempre), immutabile (non si evolve e non si è evoluto verso condizioni differenti da quelle che osserviamo), omogeneo e isotropo (in esso le stelle sono distribuite più o meno uniformemente). Dato che le stelle sono distribuite in modo uniforme e sono in numero infinito, la loro luce dovrebbe brillare in tutto il cielo, rendendo indistinguibile persino la luce del Sole. Olbers pensava che una qualche forma di polvere o gas interstellare intercettasse la luce delle stelle prima del suo arrivo sul nostro pianeta, ma ignorava che l’energia assorbita dalle particelle di materia le avrebbe in questo caso scaldate fino a renderle a loro volta incandescenti e sorgenti di energia radiante, magari di lunghezza d’onda differente. Insomma, il paradosso di Olbers era una sfida per l’infinità, l’immutabilità e l’omogeneità dell’universo. 

L’astronomia alla metà dell’800 era essenzialmente osservazionale. Era lo studio di comete, stelle binarie, “nebulae”, cataloghi di stelle. Nel 1838 Friedrich Bessel era stato il primo a misurare le distanze tra le stelle, nel 1846 Johann Gottfried Galle scoprì Nettuno basandosi sui calcoli di Urbain Le Verrier, e il grande telescopio a riflessione di Lord Rosse permise di osservare la galassia di Orione e qualche anno più tardi inquadrò e rese popolare la galassia Vortice M51. Queste scoperte, rese possibili dal progredire delle tecniche di osservazione, incominciarono a mettere in discussione l’omogeneità dell’universo: le stelle non sono distribuite in modo uniforme, ma appartengono a sistemi che oggi sappiamo essere le galassie, che a loro volta possono appartenere a sistemi più grandi, come era già stato intuito da Kant. Nel 1848 William John Herschel, recensendo il volume Kosmos di Alexander Von Humboldt, accennò alla possibilità di una struttura gerarchica dei corpi celesti come possibile soluzione al paradosso del cielo notturno. Anche se le stelle sono infinite non necessariamente il cielo deve essere luminoso in ogni punto nel modo prospettato da Olbers. La disposizione disomogenea dei corpi celesti lascia grandi spazi vuoti che noi vediamo bui.


Curiosamente, una moderna visione dell’evoluzione dell’universo, che spiegava la sua disomogeneità e forniva una soluzione del paradosso di Olbers, non fu proposta da uno scienziato, ma da uno scrittore che aveva dichiarato di non amare la scienza, pur avendo una buona conoscenza dell'astronomia della sua epoca. Nel 1848, infatti, Edgar Allan Poe pubblicò Eureka, visionario, metafisico e stravagante “poema in prosa” in cui abbondano riferimenti diretti e indiretti alle opere di alcuni tra i principali astronomi del XIX secolo (l’opera è dedicata proprio ad Alexander Von Humboldt). 

Secondo lo scrittore americano, nell’universo agiscono solo due principi, l’attrazione e la repulsione, che egli vede non solo come forze reali, ma anche come entità metafisiche: 
“Non esiste altro principio. Tutti i fenomeni sono riferibili o all’uno o all’altro, o alla combinazione di entrambi. (…) L’attrazione e la repulsione sono le uniche proprietà attraverso le quali percepiamo l’Universo – in altre parole, con le quali la Materia è manifestata alla Mente – [al punto che] siamo autorizzati a pensare che la materia esiste solamente come attrazione e repulsione, che esse sono la materia, non esistendo alcun caso concepibile in cui non potremmo utilizzare la parola “materia” e le parole “attrazione” e “repulsione”, considerate assieme, come equivalenti, e perciò scambiabili, nella Logica”. 

Poe attribuisce la nascita dell'universo alla frammentazione di una particella primitiva; una volta esauritasi l'azione della forza repulsiva iniziale, gli atomi diffusi nello spazio avrebbero cominciato ad attrarsi reciprocamente e a formare le stelle e i sistemi stellari: 
“Sono pienamente giustificato nel sostenere che la Legge che abbiamo chiamato Gravità esiste a causa del fatto che la Materia è stata irradiata, alla sua origine, atomicamente, in una sfera di Spazio limitata, da una, singola, incondizionata, irrelata, e assoluta Particella Propria, dall’unico processo in cui era possibile soddisfare, contemporaneamente, le due condizioni: irradiazione e distribuzione generalmente uniforme in tutta la sfera, cioè da una forza direttamente proporzionale ai quadrati delle distanze tra gli atomi irradiati, rispettivamente, e il Particolare centro di Irradiazione”. 
Non ci si può esimere dal notare come Poe anticipi di tre quarti di secolo le intuizioni di Georges Lemaître riguardo a ciò che sarebbe stato chiamato Big Bang. 

Gran parte degli oggetti che ai suoi tempi erano chiamati nebulae (nebulose) ed erano considerati ammassi di gas, per Poe si devono pensare fatti nello stesso modo della nostra Galassia: sono altre galassie, esterne alla Via Lattea: 
“L’osservazione telescopica, guidata dalle leggi della prospettiva, ci autorizza a concepire che l’Universo percepibile esiste come un ammasso di ammassi, disposti in modo irregolare. Gli ammassi di cui è fatto questo “ammasso di ammassi” universale sono ciò che abbiamo l’abitudine di chiamare “nebulae”, e, di queste “nebulae” una è di sommo interesse per l’umanità. Alludo alla Galassia, o Via Lattea”. 

L'insieme di questi sistemi stellari, ciascuno dei quali è, in termini moderni, una galassia, è destinato a collassare a causa della gravità e a tornare all'unità primordiale, in una sorta di “respiro di Dio”, alternarsi di espansione e contrazione (qui troviamo anticipato il modello del Big Crunch). Poe pensa erroneamente che questa fase di contrazione sia già in atto: 
“Si vede sempre un nucleo nella direzione in cui le stelle sembrano precipitare, e non si può scambiarli per meri fenomeni prospettici: gli ammassi sono realmente più densi presso il centro, più radi nelle regioni più lontane da esso. In poche parole, vediamo ogni cosa come se stesse verificandosi un collasso”. 
Nel sostenere il suo modello dinamico, egli si avventura a criticare le idee di John Herschel (il figlio di William, anch’egli astronomo): 
“Da parte di Herschel [John] c’è evidentemente una riluttanza a considerare le nebulae come “in uno stato di progressivo collasso” (…) Perché è così poco disposto ad ammetterlo? Semplicemente a causa di un pregiudizio; solo perché l’ipotesi è in conflitto con un’idea preconcetta e totalmente infondata: quella dell’infinitezza, quella dell’eterna stabilità dell’Universo”. 
Per Poe la gravità è la forza principale che modella il mondo fisico in questa fase della sua storia. Nell’opera egli cita gli esperimenti di Maskelyne, Cavendish e Bailly, che avevano misurato l’attrazione gravitazionale della massa del monte scozzese Schiehallion e scoperto che essa era in accordo con la legge di Newton. Egli va oltre, nel tentativo di cogliere la natura profonda della gravitazione: 
“Che cosa dice la legge di Newton? (…) Ogni atomo di ogni corpo attrae ogni altro atomo, sia del proprio sia di ogni altro corpo, con una forza che varia inversamente con i quadrati delle distanze tra l’atomo attratto e quello che attrae. Qui, sicuramente, un diluvio di idee inonda la mente. (…) Niente impedisce l’aggregazione di varie masse distinte, in diversi punti dello spazio”. 

La gravità agisce in modo universale, su tutta la materia, e permette la sua aggregazione: un corpo che cade sulla terra non è soggetto solo all’attrazione gravitazionale del pianeta, ma su di esso agiscono, secondo le modalità stabilite dalla legge di Newton, le forze attrattive di tutte le particelle di materia presenti nell’universo fisico. 

Egli giudica “insostenibile e tuttavia così pertinacemente seguita” l’idea che l’universo sia illimitato, innanzitutto sul piano filosofico: 
(...) come individuo, posso essere autorizzato a dire che non posso concepire l’Infinito, e sono convinto che nessun essere umano lo possa fare. Lo farà una mente non pienamente cosciente di se stessa – non abituata all’analisi introspettiva del suo stesso funzionamento”. 
Il secondo motivo è empirico: 
“Tutta l’osservazione del Firmamento rifiuta l’idea dell’assoluta infinità dell’Universo delle stelle” (…) “l’osservazione ci dimostra che c’è certamente, in numerose direzioni attorno a noi se non in tutte, un limite positivo, o, almeno, non ci fornisce alcuna prova per pensare altrimenti”. 
Poe pensa a una dimensione dell’universo di circa 3 milioni di anni luce, come stimato da William Herschel sulla base della magnitudine massima degli oggetti che era in grado di vedere con il suo telescopio: 
Così lontane da noi sono alcune delle “nebulae” che anche la luce, viaggiando alla sua velocità, non potrebbe e non può raggiungerci, da quelle misteriose regioni, in meno di tre milioni d’anni. Questo calcolo è stato fatto dal vecchio Herschel”. 
Per quei tempi si trattava di una dimensione così grande da non trovare consenso, e fu abbandonata dallo stesso Herschel negli anni successivi. Nella concezione di Poe, la dimensione dell’universo è il risultato dell’irradiazione (espansione) cosmologica ed è necessaria per consentire la formazione delle stelle, dei sistemi solari e della vita. Essa fornisce anche una spiegazione per i grandi spazi vuoti osservati: 
“La difficoltà che abbiamo così spesso sperimentato, percorrendo il sentiero battuto della speculazione astronomica, è di spiegare gli immensi vuoti di cui si è detto, nel capire il perché abissi così totalmente inoccupati e perciò così apparentemente inutili si frappongono tra stella e stella, tra ammasso e ammasso, nel capire un motivo sufficiente per la scala titanica, in rapporto al mero Spazio, con la quale l’Universo si vede costituito. Sono convinto che l’Astronomia ha palpabilmente fallito nel trovare una causa razionale per il fenomeno, ma le considerazioni che, in questo Saggio, abbiamo fornito passo dopo passo, ci consentono chiaramente e immediatamente di percepire che lo Spazio e la Durata sono una cosa sola”. 

Poe conosce chiaramente la distanza misurata da un anno luce e le implicazioni del tempo di percorrenza della luce: 
“Ci sono “nebulae” che, attraverso il magico telescopio di Lord Rosse, stanno in questo istante sussurrando nelle nostre orecchie i segreti di un milione di età passate. In poche parole, gli eventi che ai quali oggi assistiamo, in quei mondi, sono gli stessi eventi che interessarono i loro abitanti diecimila secoli fa (…) quest’idea si impone all’anima, più che alla mente”. 

La spiegazione di Poe del paradosso di Olbers è davvero anticipatoria: 
“Se la successione delle stelle fosse senza fine, allora il fondo del cielo si presenterebbe come una luminosità uniforme, come quella mostrata dalla Galassia [la Via Lattea, ndr], dato che non ci sarebbe assolutamente alcun punto, in tutto il cielo, nel quale non esisterebbe una stella. La sola maniera, perciò, con la quale, in questo stato di cose, potremmo comprendere i vuoti che i nostri telescopi trovano in innumerevoli direzioni, sarebbe supporre che la distanza del fondo invisibile sia così immensa che nessun raggio proveniente da esso ha potuto finora raggiungerci”. 


L’universo non è eterno, non è infinito, i corpi celesti si evolvono e la luce delle stelle più lontane non ha ancora avuto il tempo di raggiungere la Terra. In effetti, William Thompson, Lord Kelvin, nel 1901 analizzò dal punto di vista quantitativo il legame tra la parte di cielo coperta di stelle e la sua luminosità relativa, concludendo che per avere un cielo continuamente brillante come la superficie del Sole, sarebbe necessario considerare tutta la luminosità stellare fino una distanza talmente elevata da non poter essere stata percorsa dalla luce, che viaggia a una velocità finita. La realtà è che l’universo è troppo giovane e non contiene abbastanza materia-energia per illuminare il cielo anche di notte. 

Eureka, se si escludono l’introduzione metafisica e la conclusione lirica, non è solamente un libro che incorpora l’astronomia del suo tempo, ma è un vero proprio testo astronomico scritto da un poeta con profonde conoscenze scientifiche. Esso si può quasi considerare un saggio di cosmologia newtoniana, anche senza matematica. Con un approccio molto personale e un linguaggio ricco di immagini, Poe in questo testo ha anticipato molte delle idee cosmologiche moderne.

Paolo Molaro, & Alberto Cappi (2015). Edgar Allan Poe: the first man to conceive a Newtonian evolving Universe CULTURE and COSMOS Volume 16 no1 and 2 (2012), pg 225-239, Nicholas Campion and Ralf Sinclair eds arXiv: 1506.05218v1

2 commenti:

  1. See also :
    "Big Bang" according to the 19th century polish poet J. Słowacki
    https://www.salon24.pl/u/edalward/1334289,big-bang-according-to-the-19th-century-polish-poet-j-slowacki

    greetings

    Edward

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  2. at the same time (roughly) as Edgar Allan Poe a Polish poet Juliusz Słowacki had the idea of ​​Big Bang (« It is a fascinating case of cosmology in literature » said
    about him),

    see :
    google "Big Bang" according to the polish 19th century poet J. Słowacki

    Thank you

    Edward

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