sabato 17 ottobre 2015

Un atomo nell’universo

“Gli atomi entrano nel mio cervello, eseguono una danza, e se ne vanno; 
atomi sempre nuovi ripetono sempre la stessa danza, ricordando quella di ieri”.
(Richard Feynman, da “Che t’importa di cosa dice la gente?”, 1988) 


Ci sono le onde che si frangono
montagne di molecole
ciascuna stupidamente intenta ai fatti suoi
milioni di milioni, divise,
eppure formano spuma bianca, all'unisono.

Un'era dopo l'altra
prima che occhi potessero vederle
anno dopo anno
martellando fragorosamente la costa come ora.
Per chi, per cosa?
Su un pianeta morto
senza vita da ospitare.

Senza posa
torturate dall'energia
sprecata prodigiosamente dal Sole
riversata nello spazio.
Un microbo fa ruggire il mare.

Nelle profondità marine
tutte le molecole ripetono
la struttura l’una dell’altra
finché se ne formano di nuove e complesse.
Queste ne creano altre come se stesse
e una nuova danza ha inizio.

Crescendo in dimensioni e complessità
cose viventi
masse di atomi
DNA, proteine,
danzano una struttura ancor più intricata.

Fuori dalla culla
sulla terra emersa
eccolo in piedi:
atomi con la coscienza
materia con la curiosità.

Di fronte al mare
stupito dallo stupore: io
un universo di atomi
un atomo nell'universo.

Richard P. Feynman (1918-1988)


There are the rushing waves
mountains of molecules
each stupidly minding its own business
trillions apart
yet forming white surf in unison.

Ages on ages
before any eyes could see
year after year
thunderously pounding the shore as now.
For whom, for what?
On a dead planet
with no life to entertain.

Never at rest
tortured by energy
wasted prodigiously by the sun
poured into space.
A mite makes the sea roar.

Deep in the sea
all molecules repeat
the patterns of one another
till complex new ones are formed.
They make others like themselves
and a new dance starts.

Growing in size and complexity
living things
masses of atoms
DNA, protein
dancing a pattern ever more intricate.

Out of the cradle
onto dry land
here it is standing:
atoms with consciousness;
matter with curiosity.

Stands at the sea,
wonders at wondering: I
a universe of atoms
an atom in the universe.



martedì 6 ottobre 2015

Un conflitto tra matematici e storici della matematica

“Da quel che abbiamo detto, risulta manifesto anche questo: che compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità. Ed infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l’uno in prosa e l’altro in versi (giacché l’opera di Erodoto, se fosse posta in versi, non per questo sarebbe meno storia, in versi, di quanto non lo sia senza versi), ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale poi è questo: quali specie di cose a quale specie di persona capiti di dire o di fare secondo verosimiglianza o necessità, al che mira la poesia pur ponendo nomi propri, mentre invece è particolare che cosa Alcibiade fece o che cosa patì”. (Aristotele, Poetica, libro IX). 

Quando Aristotele scriveva queste frasi, pensava a diverse e più ampie questioni che non il rapporto tra la matematica e la sua storia. Ciò nonostante, e forse senza sorpresa, le idee del grande filosofo sono utili anche per far luce in questo ambito più ristretto. 

Una connessione interessante tra la matematica e il brano di Aristotele è stata proposta negli anni '70 dal filosofo e storico della matematica israeliano di origine romena Sabetai Unguru, che ha sottolineato come la distinzione tra poesia e storia si ritrova anche quando si parla di storia della matematica. Le “cose accadute”, cioè il singolare, il peculiare, è l’oggetto della ricerca storica, e lo storico dovrebbe sforzarsi di capirlo e comunicarlo. Le “cose che potrebbero accadere”, in quanto “cosa più nobile e più filosofica della storia” non sono affare dello storico. Esse hanno invece a che fare, come la poesia, con le affermazioni di carattere generale, “secondo verosimiglianza o necessità”, cioè con le leggi matematiche.


Come la poesia, la matematica riguarda gli universali. Come la poesia, essa tenta di scoprire il comportamento di tale e tal tipo di ente universale in virtù del fatto che è ciò che è. Sia la poesia sia la matematica tentano di dire che cosa incarnano questi enti universali o di dire di loro che cosa è “possibile in quanto probabile o necessario”. Al contrario, la storia ha il compito meno entusiasmante di mostrare ciò che è accaduto realmente, non ciò che sarebbe potuto accadere. Solamente i dettagli noiosi e particolari di ciò che è davvero accaduto sono di interesse per la storia, e, mentre le idee universali possono indicare possibili direzioni di ricerca, esse non possono essere in alcun modo un sostituto dell’evidenza storica. 

Lo stesso Aristotele trovò necessario precisare che il confine tra l’approccio storico e quello poetico è piuttosto sfuggente. L’affinità tra matematica e poesia nel senso descritto sopra rende questa distinzione ancor più elusiva, come ha messo in luce l’analisi di Unguru. In effetti, nell’analisi della matematica del passato, i matematici si concentrano spesso sui concetti matematici, sulle regolarità o affinità sottostanti, con lo scopo di trarre conclusioni sulla relazione storica. L’affinità matematica nasce necessariamente dalle proprietà universali degli enti coinvolti e ciò è stato considerato suggerire un certo scenario storico che “avrebbe potuto essere”. Tuttavia, Unguru avverte, bisognerebbe essere molto cauti a non consentire a tali argomentazioni matematiche di portaci a confondere la verità storica (cioè le cose “come sono accadute”), che si può ricostruire solo attraverso la ricerca storica e i suoi metodi, con ciò che altro non è che un possibile scenario matematico. 

Il classico esempio di questo dibattito riguarda proprio una delle affermazioni storiche di Aristotele, e cioè che i Pitagorici scoprirono l’incommensurabilità tra la diagonale e il lato del quadrato. Il filosofo afferma che essi lo provarono per reductio ad absurdum

“Perché tutti coloro che fanno un ragionamento per assurdo deducono sillogisticamente ciò che è falso, e provano l’assunto originale quando qualcosa di impossibile risulta dall’ipotesi del suo contrario; ad esempio, la diagonale del quadrato è incommensurabile con il lato, perché i numeri dispari diventano uguali ai numeri pari, e si prova ipoteticamente l’incommensurabilità della diagonale in quanto risulta una falsità nel contraddirlo”. (Analitici primi, I, 23). 

Ora, guardando alla prova standard moderna della irrazionalità di √2, osserviamo che essa si accorda bene con la descrizione fornita da Aristotele, perché anch’essa si basa sull’assurdo che un numero assunto come dispari debba necessariamente essere pari. Questa affinità matematica è collegata al racconto di Aristotele (nell’approccio “poetico” della storia della matematica) con lo scopo di inferire la validità di un’affermazione puramente storica. Si desume perciò che i Pitagorici provarono l’incommensurabilità tra la diagonale e il lato del quadrato esattamente come oggi si prova che la √2 è un numero irrazionale, ma in realtà non sappiamo come fecero esattamente. Secondo Unguru, perciò, questa conclusione è sbagliata e incarna una visione storiografica totalmente erronea. 

Un terreno privilegiato dello scontro di Unguru con il mainstream della storiografia matematica degli anni ’60-’70 riguardava le conoscenze algebriche degli antichi greci, in particolare quelle di Euclide. Così ad esempio sosteneva C. Boyer nella sua History of Mathematics, 1968: 

“Si é talvolta sostenuto che i Greci non ebbero algebra, ma ciò è chiaramente falso. Essi avevano il Libro II degli Elementi, che è algebra geometrica e aveva lo stesso scopo della nostra algebra simbolica. Non ci può essere alcun dubbio che l’algebra moderna faciliti la manipolazione delle relazioni tra le grandezze. Ma è vero senza dubbio che un geometra greco esperto nei quattordici teoremi dell’algebra di Euclide era molto più a suo agio nell’applicare queste teoremi alla misurazione pratica di quanto lo siano i geometri esperti di oggi.” 

Secondo le linee guida fornite dalla distinzione aristotelica, nel 1975 Unguru richiamò l’attenzione sulla “necessità di riscrivere la storia della matematica greca”, sostenendo che “La storia della matematica è storia, non matematica”. (S. Unguru, On the need to rewrite the history of Greek mathematics, Archive for History of Exact Sciences 15, 1975/76). La tesi principale dell’articolo è che in Euclide si trova della geometria pura e semplice: i matematici greci non utilizzavano alcun apparato di algebra simbolica. 

Tentare di spiegare Euclide come fa Boyer, secondo Unguru, è pericolosamente sbagliato dal punto di vista storico, perché si utilizzano concetti moderni che sono una descrizione falsa di una comprensione della matematica completamente differente. Si tratta di un anacronismo concettuale, che presenta il passato in funzione del presente. Così continuava, con chiaro spirito polemico: 

“... La storia della matematica è stata sempre scritta dai matematici... che o hanno raggiunto l’età della pensione e cessato di essere produttivi nei loro campi oppure sono diventati in qualche modo professionalmente sterili... Il lettore può giudicare da solo che saggia decisione sia per un professionista incominciare a scrivere la storia della sua disciplina quando la sua sola vocazione risiede nella sua senilità professionale”. 

Ciò provocò immediatamente critiche e reazioni avverse, soprattutto da parte di un vecchio matematico di spicco come André Weil, che scrisse una lettera avvelenata all’editor di Archive for History of Exact Sciences per sostenere i colleghi, anch’essi anziani e storici della matematica, Bartel L. van der Waerden e Hans Freudenthal nella loro accusa a Unguru di aver “tradito” Euclide per aver negato che potesse conoscere l’algebra. Weil chiedeva chi fosse il responsabile di aver permesso la pubblicazione di un simile articolo polemico e volgare. E che stava succedendo alla qualità della rivista? Il matematico francese concludeva con un attacco personale “... è bene conoscere la matematica prima di interessarsi della sua storia”. 

In un articolo di replica pubblicato su Isis, Unguru replicava a van der Waerden e Freudenthal, riservando il suo commento su Weil a una nota finale a piè di pagina, in cui perfidamente utilizzava le parole della sorella di Weil, Simone, grande filosofa, scrittrice e mistica: 

“Riguardo a questa lettera [quella di Weil alla rivista], meno se ne parla è meglio è. Nell’adottare questa posizione sono guidato dalle parole di Simone Weil nel suo sensibile e penetrante saggio sull’Iliade: “La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo, fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, perché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno”. E “l’uomo che non indossa l’armatura della menzogna non può provare la forza senza essere da lei toccato nel profondo. La grazia può evitarlo senza corromperlo, ma non può risparmiarlo dalla ferita” 

In modo elegante, Unguru rinfacciava a Weil l’uso della forza dell’autorità. Uno tra gli argomenti principali sottostanti la reazione dei matematici alle idee di Unguru riguardava proprio il problema dell’autorità per ciò che riguarda la conoscenza matematica. Questa autorità sembrava ora contestata da un outsider che osava mettere in discussione l’idea che di storia della matematica potessero occuparsi solo i matematici. Weil ebbe modo di sostenere questa idea al Congresso dei Matematici che si tenne a Helsinki nel 1978, con una relazione intitolata “Storia della matematica: perché e come.” In realtà il tono dell’intervento sembrava maggiormente rispondere non al perché è al come, ma al “chi” dovesse occuparsi di storia della matematica. “Quanta conoscenza matematica bisogna possedere per occuparsi della storia della matematica?”, domandò retoricamente, e nella risposta, come ci attendeva, un ruolo importante era affidato all’autorità: 

“Non c’è alcun dubbio che uno scienziato può possedere o acquisire le qualità necessarie per fare un lavoro eccellente nella storia della sua disciplina; tanto maggiore è il suo talento come scienziato, tanto migliore è probabile che sia il suo lavoro storico”. 

Come membro fondatore del gruppo Bourbaki, Weil aveva prodotto non solo molte delle idee di base della matematica bourbakista, ma anche della storiografia del gruppo, essendo quest’ultima uno degli esempi più salienti di ciò è stata polemicamente definita “la strada reale al genere personale di storiografia” (Ivor Grattan-Guinness). Secondo Weil, la buona storia della matematica si fa basandosi principalmente su considerazioni puramente matematiche e perciò deve essere fatta esclusivamente dai matematici, preferibilmente dai più importanti ed esperti (e magari francesi...). 


Nel corso degli ultimi quarant'anni, il genere di storiografia proposta da Unguru si è andata affermando, soprattutto nel caso dell’algebra e della geometria nella matematica greca. La maggior parte degli appartenenti alle nuove generazioni di storici della matematica ha accettato le idee e la metodologia proposte da lui e evita accuratamente di utilizzare argomenti matematici per “spiegare” la storia della matematica. Possiamo ad esempio considerare il tentativo di Saccheri di dimostrare il V postulato di Euclide come precursore della scoperta delle geometrie sferica e iperbolica, ma non possiamo evitare di considerare che egli lavorava in un contesto completamente euclideo (era un “gesuita euclideo”).

Chi fa storia della matematica deve conoscere la matematica (come anche chi scrive narrativa sulla matematica), ma non necessariamente dev’essere un matematico di professione. Concludo con una domanda: e chi fa divulgazione della matematica quali competenze deve avere?